Sempre più imprese scelgono, invece di aumentare i salari, di riconoscere pacchetti di contributi "in natura". Conviene a entrambe le parti, perché resta fuori dal reddito soggetto alle normali aliquote fiscali. Ma la tendenza rischia di portare il Paese verso il modello statunitense, con lo Stato che interviene solo nei casi di estrema povertà
Se il pioniere italiano del welfare aziendale ante litteram è stato Adriano Olivetti nella sua fabbrica di Ivrea, negli anni della crisi il ruolo di capofila spetta a Luxottica, che nel 2009 ha introdotto il “carrello della spesa” gratuito, cioè prodotti alimentari distribuiti mensilmente agli 8mila dipendenti. E negli anni successivi il gruppo dell’occhialeria ha allargato il raggio di azione offrendo ai lavoratori assunti o a termine altri servizi a costo zero: cure mediche, borse di studio, corsi di formazione, orari flessibili per le famiglie. Poi il modello si è diffuso coinvolgendo da Wind a Conserve Italia, da Ducati a Lamborghini, da Camst a Coop Adriatica. Ma anche Atm, Randstad Italia, Ima e Gd. Fino a una media azienda come la Berto’s di Tribano, in provincia di Padova. Che sempre a novembre, per i 100 lavoratori specializzati, ha introdotto un rimborso spese per comprare i libri e pagare la scuola ai figli (dall’asilo nido all’università), un anticipo estensivo del Tfr, anche per ristrutturare la prima casa, sposarsi o comprare la macchina, e formule di sostegno alla genitorialità, nel senso di orari lavoro personalizzati per garantire la conciliazione tra vita famigliare e lavorativa. La Feralpi siderurgica di Lonato (Brescia) riconosce invece ai suoi 350 lavoratori un bonus da 200 euro annui da spendere al supermercato.
Poi c’è Vodafone, il colosso inglese che in Italia ha sede in provincia di Torino, che quest’anno ha scelto di puntare sullo smart working e sul welfare aziendale 2.0, calibrato cioè sulle esigenze delle famiglie ai tempi della recessione. “Cerchiamo di essere vicini ai lavoratori proponendo soluzioni innovative per l’organizzazione e il lavoro individuale – racconta Elisabetta Caldera, direttore risorse umane e organizzazione di Vodafone Italia – e dallo scorso aprile abbiamo aperto per più di 3.000 dipendenti la possibilità di lavorare da casa due giorni al mese”. Un benefit che si somma al pagamento delle cure sanitarie a carico dell’azienda, compreso il latte artificiale per i figli fino al sesto mese di età, all’asilo nido, al baby sitting on demand, alle convenzioni per l’acquisto di elettrodomestici e a un servizio di “sos casa” per risolvere le piccole incombenze domestiche (falegname, elettricista, idraulico).
Passando al settore del lusso, se in Umbria il re del cachemire Bruno Cucinelli punta soprattutto sul recupero del territorio in cui l’azienda è inserita (la sede è nel borgo medievale di Solomeo, da lui ristrutturato) e sui riconoscimenti economici, visto che gli stipendi dei 1.200 dipendenti sono più alti in media del 15% rispetto alla media del settore, la griffe vicentina Bottega Veneta nel 2013 ha introdotto voucher per l’acquisto di servizi come la palestra o la materna, la lavanderia e il take away. Oltre a pacchetti bonus per comprare, ad esempio, libri scolastici o pagare la retta dell’università. E la Tod’s, gruppo Della Valle, dal 1998, anno di costruzione della sede marchigiana, mette a disposizione asilo, palestra e mediateca, mentre dal 2012 rimborsa il costo sostenuto per l’acquisto dei testi scolastici per i figli dei lavoratori, fino all’università, e paga le parcelle mediche (dentista e oculista compresi). Dal 2013, poi, versa l’1% dell’utile netto alle famiglie in difficoltà delle regioni in cui opera, Toscana e Marche, e ha inaugurato a Sant’Elpidio a Mare un centro di aggregazione giovanile dove i ragazzi possono fare sport o ricevere aiuto nei compiti.
Il modello conviene a entrambe le parti, perché il valore del contributo “in natura” è più alto rispetto a quanto il lavoratore riuscirebbe ad acquistare con un aumento in busta paga soggetto alle normali aliquote fiscali. L’altra faccia della medaglia, però, è che questa tendenza sembra riportare l’Italia agli anni Cinquanta e Sessanta, prima del Servizio sanitario nazionale, quando l’Eni costruiva villaggi vacanza per i propri dipendenti e Fiat metteva a disposizione colonie al mare e in montagna per i figli e appartamenti ad affitto calmierato. Traghettando così il Paese verso il modello Usa dello Stato “residuale”, che interviene con programmi ad hoc solo nei casi di estrema povertà e bisogno, mentre la stragrande maggioranza dei cittadini deve fare ricorso a servizi privati.