Provate a prendere un foglio bianco. A guardare davanti a voi e a dipingere ciò che vedete con le parole. Così diceva Italo Calvino. Un esercizio per imparare a scrivere e a pensare: un dipinto senza pittura, senza colori.

Vorrei avere il tempo di tentare anch’io l’esperimento, di farlo provare ai miei figli. Oggi Mario ha indicato una forma sul crinale della montagna: “Guarda quell’albero”, ha detto. Sì, non c’è dubbio, era un albero. Ma a voler essere precisi si trattava di un larice. Questione di parole, dirà qualcuno. Fino a un certo punto: se dici larice, ti viene in mente il colore verde dell’estate, ma anche il giallo acceso dell’ultimo autunno.  Nelle mani diresti quasi di sentire pungere gli aghi. Il tatto, quindi. L’olfatto poi… perché ogni albero, ogni legno ha un profumo diverso e te lo senti nelle radici.  

Quante cose stanno dentro una parola! E quante poche parole siamo ormai abituati ad usare. Diciamo albero, invece di larice, pino, abete, cipresso. Diciamo rosso, anche quando in realtà sarebbe crèmisi. Vale per gli oggetti, i colori, gli odori. Rinunciamo troppo spesso a cercare le parole giuste. Ne conosciamo sempre meno.  Quanto sarebbe invece importante ricordarci le sfumature. Non per fare sfoggio della nostra conoscenza. Ma, come diceva Calvino, poter dare un nome a ciò che ci circonda ci aiuta a vedere molte più cose.  

Già, devo proprio farlo quell’esercizio, devo provare a ripeterlo con i miei figli. E magari un giorno potremmo ripeterlo non soltanto guardando dalla finestra, ma anche scrutando dentro di noi. Non si è solo felici, ma anche euforici o entusiasti. E la tristezza può essere malinconia, disperazione, sgomento.  

Quante cose possiamo far capire agli altri se troviamo le parole giuste. Se abbiamo la pazienza di cercarle. Ma, in fondo, quante cose possiamo capire di noi stessi se riusciamo a dare un nome all’indistinto garbuglio che non sempre riusciamo a dipanare.  Ogni cosa ha un nome. E una dignità. Come in quel racconto di Arthur Schnitzler, scrittore austriaco così vicino a Freud: il protagonista tra follia e smarrimento appiccicava un cartellino con il nome sopra ogni oggetto. Per finire con un foglietto appeso sulla propria fronte: “Io”..
Il Fatto Quotidiano del Lunedì, 23 Febbraio 2015
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