Ha passato "trentadue anni in polizia, più otto mesi e quindici giorni vissuti intensamente solo ed esclusivamente nel settore investigativo". Fu lui a intuire che Pietro Pacciani "non poteva aver fatto tutto da solo”
Trent’anni di indagini, omicidi seriali, criminalità organizzata, trame, colpi di scena e ordinario spirito di servizio. In sottofondo, un rullare continuo di pedinamenti, summit tra le procure, intercettazioni telefoniche, sofismi di intelligence e tanta intelligenza pratica sul campo. “Confesso che ho indagato. Storia di un poliziotto scomodo”, uscito per Rizzoli, è un racconto biografico e autobiografico della storia recente del nostro Paese vista, e scritta, da Michele Giuttari, “trentadue anni in polizia, più otto mesi e quindici giorni vissuti intensamente solo ed esclusivamente nel settore investigativo”. Prima di diventare uno scrittore di polizieschi di successo, soprattutto all’estero, Giuttari ha ricoperto infatti incarichi alle Squadre mobili di Reggio Calabria e Cosenza, alla Dia (Direzione investigativa antimafia) di Napoli e Firenze, al Gides (Gruppo investigativo delitti seriali); e soprattutto è stato il capo della Squadra mobile di Firenze ai tempi dei processi del “Mostro di Firenze”.
“Senza indossare mai una divisa”. Fu lui a intuire e imboccare la strada del “Pacciani non poteva aver fatto tutto da solo”, e dei famigerati “Compagni di merende”, Mario Vanni e Giancarlo Lotti; fu lui a sospettare l’esistenza di un indicibile “secondo livello”, un mandante o una cupola di sofisticati burattinai, una regia scura e occulta dietro le gesta abiette del Mostro. Anzi, dei Mostri. Ma quest’ultima pista non poté essere percorsa fino in fondo. Al centro del libro c’è insomma il Giuttari poliziotto e detective. Di giorno, “le pratiche. Mi dedico alla redazione delle misure di prevenzione”. Di notte, “quando sopraggiunge la sera, invece, brucio le ore, spesso fino al sorgere dell’alba, con il lavoro di strada: mi sposto a bordo di vecchie Fiat di piccola cilindrata, che hanno macinato chilometri e chilometri”.
Una storia, un labirinto di storie apparentemente inestricabile. Ma i personaggi, i contesti, i fatti, le tragedie (molte) e le speranze (un po’ meno) sono tutti veri. Appartengono, come vene ancora aperte, alla cronaca più nera, magari agìta con guanti bianchi, della nostra nazione. Con scrittura asciutta e rigorosa, e con incedere incalzante, in “Confesso che ho indagato” Michele Giuttari ci riporta, all’inizio, molto indietro. Tutto comincia nel 1978, annus horribilis, in Sardegna, tra disamistade e sequestri; poi la Calabria, dove il superpoliziotto di origine siciliana affina le sue tecniche d’indagine. Diventa freddo, paziente, analitico, determinato. In quella terra di ‘ndrine e di “montagna magica”, l’Aspromonte, mentre la vecchia mafia di stampo agropastorale prendeva una pelle nuova, lucida, smaltata, potente: col traffico della droga i miliardi di lire (poi riciclati) scorrevano a frotte. Da Reggio Calabria, Giuttari si sposta a Cosenza, dove sostituisce “un valoroso collega e amico, Nicola Calipari, trasferito alla Mobile di Roma come vice dirigente”. La grande storia dark, intrisa di sangue e rimozione collettiva, che ritorna: il 4 marzo del 2005 Calipari sarà ucciso mentre sta portando in salvo la giornalista del quotidiano il manifesto Giuliana Sgrena, appena liberata a Baghdad. Le fa scudo col suo stesso corpo. Il corpo dello Stato, quello limpido. Poi il suo passaggio alla Dia, distaccamento di Firenze; è il 1993, e il 27 maggio di quell’anno la capitale del Rinascimento viene sconvolta dall’attentato di via dei Georgofili. Due mesi dopo anche a Roma e Milano avvengono terrorismi simili. Con morti, feriti e affronti incalcolabili al cuore della Grande Bellezza dell’Italia.
Sono i colpi di coda della mafia stragista dei corleonesi. Sono anche gli anni della trattativa stato-mafia. Poco tempo dopo Giuttari viene richiamato a Firenze. Bisogna risolvere la sciarada del Mostro. E lui, allergico per natura alle mezze verità e agli avverbi inutili, non rinuncia a smontare e demistificare le soluzioni facili. Non lo convince neppure la morte stessa di Pietro Pacciani, contadino violento imbevuto di credenze magico-sataniche. “Pacciani è riverso sul pavimento della stanza, con i pantaloni abbassati fin sotto i glutei, la maglia sollevata sul petto e, ai piedi, un paio di scarpe sporche di fango. La causa della morte sarebbe un arresto cardiocircolatorio”. Il referto del medico non convince il detective Giuttari, così come non avrebbe convinto in seguito Michele Ferrara, il suo alter ego letterario. “Fisso il cadavere, pensando che avrei voluto incontrarlo e interrogarlo, proprio come ho fatto con i suoi “compagni di merende”. L’avrei voluto guardare negli occhi, studiare la sua postura, i movimenti, i silenzi, per fargli dire tutto. Perché lui, ne sono certo, doveva sapere tante cose”.