La destra revanchista blocca il film diretto dall'attrice. E' basato sul drammatico racconto di un ex pilota americano di origine italiana, Luis Zamperini, catturato dai giapponesi e costretto a sopportare condizioni disumane in un campo di prigionia
Per carità. Non è certo un capolavoro. E ci mancherebbe che la loro storia, i giapponesi, la debbano imparare da Angelina Jolie, anziché, come sarebbe giusto, a scuola, in famiglia, dal loro governo.
Ma l’idea che la distribuzione di un film (americano) costato oltre cento milioni di dollari possa essere bloccata per paura di ritorsioni da parte della sempre più rumorosa – ma per fortuna ancora innocua – destra revanchista giapponese è decisamente dura da digerire. E la dice lunga sull’atmosfera sempre più pesante, illiberale e a volte pericolosamente intollerante che si respira in Giappone.
Parliamo di Unbroken, ultima fatica alla regia di Angelina Jolie. Che come attrice in Giappone è stata sempre molto apprezzata e seguita, ma che stavolta non vedrà il suo film – basato sul drammatico racconto di un ex pilota americano di origine italiana, Luis Zamperini (interpretato da Jack O’Collen), catturato dai giapponesi e costretto a sopportare condizioni disumane in un campo di prigionia diretto da un ufficiale sadico e crudele – proiettato in nessuna sala dell’Impero. E questo nonostante nel film il ruolo dell’ufficiale sadico sia impersonato da Miyavi (vero nome Takamasa Ishihara), popolare rock star nazionale. Motivo?
Il film, ambientato sul finire della guerra, contiene scene violente e crudeli (compresi episodi di cannibalismo) “assolutamente inventati e offensivi della dignità delle forze armate e dell’intero popolo giapponese”. Questo, almeno, è quanto sostiene un comitato per la “disseminazione della vera storia”, formato da un curioso mix di ultraottuagenari e giovanissimi “patrioti”, non nuovo a proteste e dimostrazioni anche rumorose (ma mai violente, sinora) che stavolta pare abbia convinto non solo i grandi distributori (Toei, Toho Towa, che in Giappone rappresenta la Universal Pictures, distributore ufficiale del film negli Usa) ma anche i più piccoli e persino le singole sale d’essai a non proiettare il film. Persino Tsutaya e Unplugged, colossi del mercato dvd e noleggio hanno annunciato ufficialmente che non ne acquisteranno i diritti.
Non è la prima volta che gruppi di facinorosi nazionalisti tentano di bloccare, sabotare, disturbare le proiezioni di film “controversi” e altri eventi culturali. Negli anni ’90 ci furono scene inaudite (per il Giappone) di violenza, con tanto di picchetti per non far passare gli spettatori, in occasione della prima di “Prisoners of the Sun”, un film del regista australiano Stephen Wallace con Russel Crowe, anche questo ambientato durante la guerra e dove si vedevano per la prima volta scene di barbara crudeltà perpetrate dalle truppe dei “liberatori” giapponesi. In Indonesia, nella fattispecie. Anche se sappiamo che sono avvenute un po’ dappertutto, e di cui il cosiddetto “massacro di Nanchino” – che secondo il sopracitato Comitato è un’invenzione dei nemici del Giappone – è un po’ il simbolo.
Roba in effetti mai insegnata, e tanto meno vista al cinema, in Giappone, dove la “linea” ufficiale è ancora quella che i soldati di Sua Maestà erano degli eroi che si sono immolati prima per “liberare” l’Asia, poi per difendere il Giappone dall’invasione dei barbari americani. Basta vedere che nonostante si dichiarino pacifisti e siano contrari (gli ultimi sondaggi parlano di un 75%) ad ogni modifica dell’art 9 della Costituzione (quello che inibisce al paese il possesso di forze armate), i giapponesi vanno ancora a vedere in massa film come Eien no zero (L’eterno Zero, il famoso caccia giapponese usato durante la guerra) con il solito kamikaze che si sacrifica, tra i pianti della madre e i banzai dei suoi compagni, per salvare la patria. Nel 2014, è stato il re del botteghino, battendo alla grane tutti i kolossal di Hollywood.
Poi c’è stato il caso di Yasukuni, il bellissimo documentario del regista cinese (ma residente in Giappone) Li Ying, dedicato al controverso tempio scintoista dove vengono venerati i “caduti per la patria”, compresi gli animali domestici e alcuni criminali di guerra. Il film in Giappone è stato proiettato solo una volta, nel maggio 2008, sotto protezione della polizia, e poi subito fatto sparire per timore di violenze. Ma un coraggioso distributore, Argo Pictures, ne ha acquistato i diritti e ogni tanto, tutt’oggi, organizza proiezioni semiclandestine, mentre il dvd, relativamente parlando e nonostante sia difficile da trovare, per un periodo è andato a ruba: 130mila copie. Ora è su You Tube, e ne consiglio davvero la visione. Sia perché il documentario è davvero fatto bene e con una meravigliosa colonna sonora, sia perché affronta questa delicata e complicata questione anche dal punto di vista giapponese, il che aumenta le perplessità sul fatto che in Giappone non abbia avuto la diffusione che meritava.
Più recentemente, un paio di anni fa, questi sedicenti disseminatori di verità avevano anche tentato – senza riuscirci – di bloccare la proiezione del docufilm premio Oscar “The Cove”, quello che ha denunciato al mondo la crudele mattanza dei delfini nella baia di Taiji, sulla costa meridionale del Pacifico. Ma in tutti questi casi, gli ultrà di Sua Maestà (che in realtà ha ripetutamente condannato, anche di recente, ogni tentativo di riscrivere la storia, invitando il popolo a riflettere sui passati errori) erano riusciti solo a fare un po’ di casino, ad ottenere qualche titolo di giornale e ad impedire una distribuzione più vasta.
Ma non a impedire, tout court, la proiezione. Questa volta invece ce l’hanno fatta: per vedere Unbroken, ammesso che poi ci avessero davvero tenuto, i giapponesi, a farsi raccontare la loro storia da Angiolina Jolie, dovranno andare in Corea, in Cina o scaricare illegalmente il film da internet.
Una brutta notizia, insomma. Aggravata dal fatto che, almeno qui in Giappone, non ha fatto notizia. Segno che il trend illiberale che si registra in varie parti del mondo – Italia compresa – sta guadagnando anche qui terreno, tra il disinteresse della gente, sempre più preoccupata per il futuro e disposta a rinunciare a diritti che sembravano oramai acquisiti per sempre, e l’arroganza di governi che non vedono l’ora di approfittarne per soffocare la discussione, il dibattito, la libertà di espressione e di dissenso. Mettendo le mani sulle costituzioni, anziché, un’idea a caso, aumentare i salari.