Nel gennaio 2012 Morgan Stanley è passata all'incasso chiudendo in anticipo un contratto derivato sottoscritto con il ministero dell'Economia. Che ha versato la cifra senza consultare l'avvocatura generale dello Stato. Ora dalle carte della Procura di Trani, dove è in corso il processo a otto manager delle agenzie di rating che poco prima avevano declassato l'Italia, emerge che la banca d'affari è azionista di Standard & Poor's
Un esborso miliardario dalle casse dello Stato italiano che forse avrebbe potuto essere evitato o limitato e intrecci azionari che fanno sorgere diversi interrogativi. Dalle carte del processo contro le agenzie di rating Standard & Poor’s e Fitch in corso a Trani, anticipate in parte dal Corriere della Sera, emergono particolari imbarazzanti per il ministero dell’Economia. I documenti aggiuntivi depositati dal pm Michele Ruggiero in vista dell’udienza del 5 marzo evidenziano infatti che all’inizio del 2012, dopo che S&P aveva declassato il rating della Penisola con una mossa finita al centro dell’inchiesta per manipolazione del mercato, l’Italia pagò oltre 2,5 miliardi di euro a Morgan Stanley in attuazione della clausola di risoluzione anticipata di un derivato. Circostanza peraltro già nota: la banca d’affari statunitense, troppo esposta nei confronti di Roma, fece appello a un codicillo che le consentiva di chiudere anzitempo il contratto sottoscritto nel 1994 con il Tesoro, facendosi restituire l’intero valore di mercato della posizione. Che in quella fase era particolarmente alto proprio in seguito alla debolezza finanziaria dell’Italia.
Ma quel che emerge ora dalla testimonianza della numero uno della direzione Debito pubblico Maria Cannata è che via XX Settembre versò quella cifra all’istituto di cui è vicepresidente e country head per l’Italia l’ex ministro Domenico Siniscalco senza consultare l’avvocatura dello Stato né tentare di percorrere fino in fondo la strada, forse meno onerosa, del trasferimento della posizione a un’altra banca. Questo nonostante, come ricorda il pm, le indagini sulla legittimità del declassamento fossero già partite e la stessa Cannata lo avesse definito “eccessivo, incoerente e ingiustificato“. Ma la funzionaria risponde che al ministero ci sono competenze tali da non rendere necessarie ulteriori consulenze e, riguardo alla possibilità di interpellare l’avvocatura, sostiene che “non c’erano i tempi tecnici” e comunque “le clausole sono molto chiare”, “non è che ci siano margini di interpretazione” e “non possiamo avviarci sul terreno di creare un contenzioso“. Quanto alla possibilità di “contestare formalmente le richieste delle controparti di chiusura anticipata e/o rinegoziazione, sui presupposti che c’era una indagine penale in corso”, Cannata ribatte che “il mercato una cosa del genere non la avrebbe capita”. Vale ricordare che la dirigente che dal 2000 è responsabile delle emissioni di titoli pubblici di Roma è la stessa che secondo indiscrezioni ha caldeggiato l’inserimento nella legge di Stabilità di un articolo che autorizza il Tesoro a stipulare con le grandi banche d’affari “accordi di garanzia in relazione alle operazioni in strumenti derivati”, impegnandosi a depositare miliardi di euro su conti esteri come garanzia, appunto, per i pagamenti futuri dovuti sui contratti derivati. Anche su questo aspetto dovrebbe far chiarezza l’indagine conoscitiva sui derivati che ha preso il via a novembre in commissione Finanze alla Camera.
A suscitare l’interesse degli inquirenti è però soprattutto il fatto che all’epoca dell’incasso miliardario e ancora oggi, come confermato ai pm dalla European Securities and Markets Authority (Esma) a cui Consob ha rimpallato la domanda, Morgan Stanley è, pur con una piccola quota (2,75%), tra i soci di McGraw-Hill financial, a cui fa S&P fa capo. Quadro che secondo i pm suscita perplessità sulla trasparenza dell’iter che portò l’agenzia a tagliare di un punto il giudizio sul debito italiano, in quei mesi già preso di mira dalla speculazione. Fu in quel contesto di crisi, con la Penisola pericolosamente vicina al default, che arrivarono le dimissioni di Silvio Berlusconi da premier e a Palazzo Chigi si insediò il governo “tecnico” guidato da Mario Monti. Il quale all’epoca del versamento dei 2,5 miliardi ricopriva anche l’incarico di ministro dell’Economia.
Secondo l’Adusbef, dalle cui denunce (presentate insieme a Federconsumatori) sono partite le indagini della Procura di Trani, questi incroci pericolosi spiegherebbero anche perché via XX Settembre, così come la Banca d’Italia e la Consob, non si sia costituita parte civile nel processo di Trani. Una decisione contestata dall’associazione dei consumatori, che ha di recente presentato un esposto alla Corte dei Conti chiedendo di accertare se questo “non integri la fattispecie di danno erariale“. “Forse lo ritiene imbarazzante, sapendo che quando pagò era già pendente il procedimento penale che dubitava della legittimità e trasparenza di quei declassamenti”, ipotizza ora il presidente Adusbef Elio Lannutti. Imbarazzo forse legato anche al fatto che nelle ultime settimane le società coinvolte, Morgan Stanley e S&P, hanno patteggiato con l’amministrazione Obama e con la Sec (ente federale che vigila sulla Borsa Usa) rispettivamente due multe da 2,6 e da 1,5 miliardi di euro per la vendita di quei mutui subprime che contribuirono a causare la crisi finanziaria.
Tornando ai fatti italiani, occorre aggiungere che nelle carte di Trani è riportata anche la trascrizione della testimonianza dell’attuale ministro dell’Economia Pier Carlo Padoan, sentito nel marzo 2012 quando era ancora capo economista dell’Ocse. Padoan riferisce di aver ritenuto “non giustificato” il declassamento deciso da S&P il 13 gennaio 2012 e conferma lo “stupore”, espresso in un’intervista pochi giorni dopo, per il fatto che la decisione fosse arrivata “proprio nel momento in cui il governo stava prendendo azioni positive per affrontare la situazione”.