Non so chi sia stato a definire Erbil “la Dubai dell’Iraq”. In teoria, è una capitale. La capitale del Kurdistan, che sta a nord, ed è autonomo, ha il suo parlamento e il suo governo – ma non è neppure una città: non è che un susseguirsi insensato di case, case basse, a un piano, due, senza la minima logica, la minima struttura. Tutto giallo, tutto ricoperto di sabbia. Sotto questo cielo stagnante, una casa, un magazzino dopo l’altro, così, in tutte le direzioni, per chilometri, chilometri, con queste strade che sembrano autostrade, tre, cinque, sei corsie, si gira solo in taxi, non c’è mezzo isolato in cui camminare, solo case, e case e case, gettate lì a caso come i bastoncini dello shanghai. Una distesa sterminata. E ha già un milione e mezzo di abitanti. Uno, due piani alla volta, arriverà fino in Pakistan.
E la prima cosa che ti colpisce sono le Toyota. Le auto: sono quasi tutte Toyota. Tutte queste jeep bianche, spesso blindate, i vetri oscurati: sono le jeep dell’ONU, delle ONG, delle ambasciate – sono le jeep dei padroni. Perché poi la Erbil dei curdi è una città di provincia, un po’ anni Cinquanta, il tinello, i mobili in fòrmica, i fiori di plastica: ma a tratti, nel giallo, svetta la torre di un hotel a sette stelle: è la Erbil di quelli che comandano. Il Kurdistan è la zona meno pericolosa dell’Iraq. E gli stranieri, quindi, abitano tutti qui. Ai prezzi di Manhattan, a quattro euro a cappuccino. Dietro questi muri in cemento, il filo spinato, le telecamere, i soldati in kalashnikov, i cani antiesplosivo, per entrare ti perquisiscono due volte. Poi la porta si apre, e c’è il pianista che suona, una ragazza ti fa una piroetta, in costume tradizionale, e ti offre un dolcetto. Ovviamente ti dicono che abitano qui per ragioni di sicurezza. C’è tutto, dentro, c’è il caffè, c’è il barbiere, il negozio per il maglioncino di cashmere, c’è la palestra, la sauna. Puoi non uscire mai. Puoi stare sicuro.
Puoi anche startene a Roma, onestamente. E stai ancora più sicuro.
In realtà Erbil ha un centro. Una cittadella fortificata, su una specie di collina, con il prato inglese, sotto, le fontane: e tutto intorno il bazar. Un centro vero: un centro di quando le città si costruivano ancora come Baghdad, come Damasco, il Cairo – non come Erbil: quando ai posteri lasciavamo in eredità gli acquedotti, non i raccordi anulari. Ma se dici “in centro”, un tassista non va alla cittadella, va al Family Mall: va al centro commerciale. Perché poi è questa oggi, malinconicamente, la società, qui. Con questi centri commerciali tutti identici, tutti con gli stessi negozi, e i negozi tutti con le stesse cose, e la cheesecake congelata, e la crepe alla nutella – il trenino al piano terra, l’ascensore trasparente, i popcorn e i palloncini e la ragazza all’ingresso che ti spennella di fard e ti offre il campioncino di profumo. Poi entri nella toilette, e non c’è l’acqua.
Perché è questo oggi il Medio Oriente: ogni risorsa investita nell’apparenza. E ogni risorsa investita nel commercio, o nel mattone. Nei beni materiali. In questa malconcia imitazione dell’Occidente. Mai che ti imbatta in una galleria d’arte, un cinema, in queste città che non sono che macchie di cemento – pensate non per abitare, ma per stare. Non per essere cittadini: per essere individui.
Gli stranieri che non possono permettersi il pianista in soggiorno abitano nel quartiere cristiano, o meglio assiro, protetto da una madonna gigante. Ankawa. E nonostante Erbil non abbia un centro, Ankawa è ancora più lontano dal centro di tutto il resto, è dietro l’aeroporto: è pronto alla fuga: è un mondo a sé. I curdi hanno organizzato tutto, esaudito ogni desiderio dei loro ricchi clienti occidentali: il finto Starbucks, il finto McDonald’s, il narghile, il caffè Lavazza e il ristorante messicano. Trovi tutto. Il centro estetico, la palestra. Televisori al plasma e telefonini.
Tutto tranne una libreria. Per quella non c’è richiesta.