Continua ad arricchirsi di particolari inquietanti l’inchiesta della procura di Bergamo sull’ipotesi di “illecita influenza” dell’Associazione banca lombarda e piemontese, guidata all’epoca da Giovanni Bazoli, e della Amici di Ubi di Emilio Zanetti, sull’assemblea 2013 di Ubi banca. Durante le perquisizioni della Guardia di Finanza disposte dai pm che indagano per verificare se la nomina degli attuali vertici del gruppo sia avvenuta grazie a un voto falsato da deleghe in bianco raccolte illegalmente e firme falsificate (con il concorso dell’ex presidente della Compagnia delle Opere di Bergamo) è spuntato infatti il testo di un discorso che inguaia ulteriormente Zanetti. Come rivela Repubblica, l’ex presidente del Consiglio di gestione dell’istituto di credito nonché capo dell’associazione dei soci bresciani il 13 marzo 2013 – un mese prima dell’assemblea finita nel mirino degli inquirenti – ha pronunciato davanti ai responsabili delle direzioni territoriali parole che suonano chiaramente come minacce. Chi si adopera per far votare liste diverse da quella presentata dagli Amici di Ubi, è il succo, sarà considerato un dipendente “scorretto“.
“L’auspicio che formulo nell’interesse del gruppo”, è la inequivocabile premessa, “è che tale lista (quella che proponeva come candidato per la presidenza del consiglio di Sorveglianza Andrea Moltrasio, che sarebbe poi stato eletto, ndr) possa ottenere il maggior numero di consensi“. Di conseguenza, continua il testo, “se una persona che lavora per la banca o per il gruppo si dovesse attivare per trasmettere messaggi diversi, in antitesi rispetto a quelli che a banca intende trasmettere, compirebbe un atto contrario all’interesse della banca, offensivo nei confronti dei vertici aziendali e soprattutto un atto di sfiducia nei miei confronti, ripeto nei confronti del legale rappresentante, un atto che io giudico molto scorretto”.
Nessun giro di parole, insomma: Zanetti era molto esplicito nel minacciare i direttori di filiale per manovrare a proprio favore le preferenze espresse nell’assise dei soci. Per non dire della pratica, emersa nel corso degli interrogatori condotti dal nucleo di Polizia valutaria delle Fiamme Gialle, di far lievitare il numero di deleghe utilizzando per sottoscriverle – all’insaputa dei clienti – gli specimen di firma depositati in banca. Modus operandi che suscitano molti punti di domanda sul governo societario delle banche popolari, in queste settimane al centro dell’attenzione per la riforma varata dal governo a fine gennaio, che prevede la trasformazione dei primi dieci istituti di credito cooperativo in società per azioni, con la conseguente decadenza di alcune peculiarità come il voto capitario, la facoltà di esprimere un solo voto indipendentemente dal numero di titoli posseduto.
In questa luce, forse non è un caso che Giuseppe Masnaga, direttore generale della Banca popolare di Bergamo, reo di aver “trasmesso un messaggio” diverso e di averlo rivendicato di fronte allo stesso Zanetti, dieci giorni dopo abbia ricevuto una lettera di richiamo. E abbia preferito dare le dimissioni dal gruppo, i cui vertici sono già indagati dal maggio scorso per ostacolo alle funzioni di vigilanza, truffa e riciclaggio.