Il fascicolo aperto dal pm Nello Rossi riguarda lo scioglimento anticipato da parte della banca d'affari di un contratto sottoscritto con il Tesoro nel 1994. Il Mef pagò 2,5 miliardi. L'Adusbef, dalle cui denunce è partita anche l'inchiesta di Trani sulle agenzie di rating, ha presentato un esposto contro "ministri e dirigenti che hanno negoziato derivati capestro"
Sullo scioglimento anticipato da parte di Morgan Stanley di un contratto derivato in essere con la Repubblica italiana, decisione costata alla Penisola un esborso da 2,5 miliardi di euro, è stata aperta un’inchiesta. Il pm di Roma Nello Rossi, riferisce Il Sole 24 Ore, ipotizza il reato di manipolazione del mercato in relazione alla clausola invocata dalla banca d’affari statunitense all’inizio del 2012 per chiudere anzitempo quello strumento finanziario sottoscritto dal Tesoro nel 1994. Su quel codicillo si sono accesi i riflettori dopo che è emerso come Morgan Stanley possedesse all’epoca una piccola quota (2,75%) nel capitale dell’agenzia di rating Standard & Poor’s, che poco prima della richiesta della banca di monetizzare la sua posizione aveva tagliato la valutazione del debito sovrano di Roma con una decisione finita al centro di un’inchiesta della procura di Trani.
Quella clausola era “unica nel suo genere”, come ha riconosciuto la numero uno della direzione Debito pubblico Maria Cannata nell’audizione alla commissione Finanze della Camera, che ha avviato un’indagine conoscitiva sui derivati, e nella deposizione davanti ai pm di Trani, dove è in corso il processo contro S&P e Fitch per il declassamento del rating dell’Italia tra il 2011 e il 2012. Tuttavia, ha chiarito la Cannata, a farla scattare non fu il taglio del merito di credito dell’Italia bensì l’eccessivo “rischio di controparte”: in pratica Morgan Stanley era troppo esposta nei confronti di un cliente “pericoloso” quale, in quel momento, era la Repubblica italiana. Un’esposizione “eccessiva” per le autorità di vigilanza americane e “per questioni di solidità patrimoniale“. Di lì la decisione di chiudere il contratto e il pagamento disposto dal Tesoro, guidato all’epoca dall’allora presidente del Consiglio Mario Monti. Secondo la dirigente di via XX Settembre non c’è quindi alcuna connessione tra declassamento e clausola di rescissione.
La pensano diversamente sia il procuratore pugliese Michele Ruggiero sia, a quanto emerge oggi, gli inquirenti romani. La cui inchiesta non vede per ora iscritti nel registro degli indagati. L’Adusbef, dalle cui denunce presentate nel 2013 sono partite le indagini, ha però presentato questa mattina insieme a Federconsumatori un ulteriore esposto alla Procura di Roma contro i “ministri e dirigenti del Tesoro che hanno negoziato contratti derivati capestro“, chiedendo che si accerti se i loro comportamenti abbiano procurato “danni rilevanti al pubblico erario e ai cittadini consumatori”. Le associazioni auspicano che i pm di Roma inviino al Tribunale dei ministri gli atti che riguardano l’ex premier Mario Monti, l’attuale ministro Pier Carlo Padoan, già capo economista dell’Ocse, e Maria Cannata. La stessa associazione dei consumatori nelle scorse settimane ha presentato un esposto alla Corte dei Conti contro il ministero dell’Economia ipotizzando il danno erariale per la decisione di non costituirsi parte civile nel processo di Trani, “rifiutano la possibilità, di un idoneo corposo risarcimento che andrebbe in favore del pubblico erario”. Mercoledì il ministro Pier Carlo Padoan in question time alla Camera ha detto che “se dovessero emergere elementi ulteriori” il Tesoro “terrà conto” della possibilità di costituirsi” – ma l’ultima possibilità era oggi – e “in alternativa valuterà se chiedere i danni in sede civile”.
Nel giorno in cui si svolge la seconda udienza del processo di Trani in cui sono imputati per manipolazione del mercato sei tra manager e analisti di S&P, il quotidiano di Confindustria ricostruisce però l’intera vicenda mettendo in luce diversi punti deboli delle ipotesi investigative. Per prima cosa la decisione dell’agenzia di declassare l’Italia a fine 2011 e nel febbraio 2012, pur aspramente criticata dall’allora premier Mario Monti e da altri politici ed economisti, va inquadrata in un contesto che come è noto era di grave crisi finanziaria. Non è un caso se la stessa S&P in quei mesi mesi riservò lo stesso trattamento ad altri otto Paesi europei. Nell’agosto del 2011 peraltro aveva tagliato anche il rating degli Usa. Non solo: nel novembre 2011 anche Morgan Stanley fu declassata.
Il Sole 24 Ore precisa poi nuovamente che non è stato il declassamento a portare all’attivazione della clausola che ha permesso a Morgan Stanley di battere cassa. Quanto alla partecipazione di Morgan Stanley in S&P, a detenerla non era la banca (Morgan Stanley & co international plc) bensì la società di gestione Morgan Stanley investment management, che “opera in modo autonomo”. E il 2,75% “rappresentava la quota aggregata“, il valore complessivo detenuto dai vari fondi in pancia alla società. Che avevano acquistato le azioni con “investimenti distinti e decisi indipendentemente l’uno dall’altro”. Quote “sminuzzate“, dunque, difficilmente utilizzabili “per forzare una decisione di rating”. Infine, secondo il quotidiano, il Mef ha pagato senza fare opposizione pur sapendo del procedimento di Trani perché una decisione diversa “avrebbe avvicinato il Paese al baratro del default” in un momento che era già di estrema tensione, con lo spread tra i titoli di Stato italiani a dieci anni e gli equivalenti tedeschi oltre la soglia di allarme dei 500 punti.