Alzi la mano chi non ha mai letto di padri separati finiti alla Caritas o che si sono arrangiati alla bell’e meglio per non finirci. Il web pullula delle loro storie, tanto che ormai è chiaro a tutti quel che può accadere quando un matrimonio finisce sul binario morto della separazione.
Alla madre vanno la casa coniugale (quando c’è), i soldi per il mantenimento dei figli e il 50% delle spese straordinarie (mediche, scolastiche e sportive). E, come se non bastasse, il padre deve farsi anche carico della rata del mutuo (metà, se non tutta) di una casa di cui non disporrà più fino all’indipendenza economica dei figli e dell’affitto per una nuova abitazione in cui poter esercitare il proprio diritto di visita.
Così la povertà è sempre in agguato. È in questi particolari casi che lo Stato giunge in soccorso. In tutta Italia è un fiorire continuo di strutture di accoglienza ad hoc: Bolzano, Milano, Rimini, Roma, Savona, Torino, Venezia. Tra le ultime, in ordine cronologico, Prato. “Sei un padre separato? Lo Stato ti aiuta”. Basta uno slogan da cavalcare in campagna elettorale, il “giusto” contributo di soldi pubblici e una buona dose di demagogia. E giù consensi. Tutti a dire “bella iniziativa”, “ci voleva”, “era ora che qualcuno li togliesse dalla strada”.
Così le case per i padri separati prendono piede. A quelle già esistenti se ne aggiungono di nuove e chissà quante altre ne seguiranno. Forse una in ogni capoluogo di provincia. Insomma minimo sforzo, massima resa: di soldi, di consensi, di voti. Peccato che un tetto sopra alla testa l’avrebbero bisogno in migliaia, non qualche sparuta decina. Ma tant’è. In fin dei conti basta un poco di zucchero…E la pillola va giù? Non proprio. In un Paese civile simili strutture non dovrebbero neppure esistere. In Italia, invece, non solo esistono, ma addirittura proliferano per una distorsione legislativa secondo cui, in funzione dell’interesse prioritario dei figli, in caso di proprietà comune tocca al padre lasciare la casa, mentre, se la madre non vanta alcun titolo di proprietà sull’immobile, il giudice non può “espropriare” il bene per darlo all’altro genitore. In altre parole la debolezza economica non viene considerata ai fini dell’assegnazione della casa coniugale. Dettagli giuridici, certo, ma ci sarà un motivo se più di una volta la Corte europea dei diritti dell’uomo ha condannato l’Italia per non aver garantito i diritti dei padri separati. C’è un limite alla propaganda politica oltre il quale sarebbe bene non andare.
Uno Stato dovrebbe scoraggiare la povertà, non favorirla. Trovare soluzioni, non palliativi. Basterebbe ripensare a livello legislativo, secondo una visione più bilanciata dei diritti, una diversa regolamentazione della casa coniugale. Forse, però, lo Stato non ha nulla da guadagnarci.