“Io segregata? Ma quando mai! È da un anno e mezzo che sono a Chicago per ragioni di studio”. A parlare al telefono è la figlia ventenne di una donna marocchina a cui nelle scorse settimane era stata negata la cittadinanza italiana. Ha contattato ilfattoquotidiano.it perché si è riconosciuta nel racconto del sindaco del suo paese, che aveva commentato e argomentato la decisione di non concedere la cittadinanza alla madre. La vicenda era balzata agli onori delle cronache alla fine di gennaio, quando nel comune di Uboldo (Varese) la donna non era stata in grado di recitare la formula di rito. Ilfattoquotidiano.it aveva raccolto il racconto del sindaco, Lorenzo Guzzetti, che aveva spiegato e motivato la scelta.
Nel suo racconto il sindaco Guzzetti era sceso nei particolari, spiegando: “Conosco quella famiglia, estrazioni umili e attaccamento alla tradizione del paese di origine. Non esagero nel dire che quella persona (riferendosi alla donna a cui è stata negata la cittadinanza, ndr) in venti anni non è mai uscita di casa. Stessa sorte toccata alla figlia. Finché era bambina frequentava regolarmente l’oratorio, quando è diventata donna è sparita dalla circolazione”. Parole che non sono passate inosservate, soprattutto agli increduli protagonisti della vicenda (preferiscono non rivelare la loro identità, nda), che hanno letto le dichiarazioni e ne sono rimasti spiacevolmente sorpresi. “Magari mia figlia fosse qui – scherza la donna mostrando una foto della ragazza – invece è più di un anno che vive negli Stati Uniti per studiare”.
E il marito fa eco: “Mia moglie ci è rimasta proprio male, è stato un brutto gesto. Da venti anni che siamo qui, siamo integrati, i miei figli hanno studiato qui, mia figlia non ha mai portato il velo, guarda che bella ragazza (mostra anche lui una foto sul cellulare), mia moglie fa le pulizie in casa delle famiglie di Uboldo, la conoscono in molti, è una donna libera, fa male sentire che ci descrive così”. L’uomo poi torna sui fatti della cittadinanza negata: “È vero – dice – mia moglie non legge l’italiano. Non abbiamo studiato, ma cerchiamo di dare ai nostri figli quello che non abbiamo avuto noi. Quel giorno mi sono proposto di leggere per mia moglie la formula e farla ripetere a lei davanti al sindaco, ma per aiutarla. Il sindaco ci ha mandati via”.
“A quel punto ero talmente arrabbiata che mi mancavano anche le parole, non volevo più nemmeno la cittadinanza – è intervenuta la donna – e pensare a quanti soldi e quanto tempo abbiamo speso. La pratica, tra viaggi e carte bollate è costata quasi 2mila euro in due anni. Alla fine ci tratta così proprio il sindaco, una persona che conosciamo da anni? Non ho mai avuto problemi a farmi capire. Sono stata in ospedale, in farmacia, alla scuola dei figli, a fare la spesa, a lavorare. Tutti mi capiscono”. Insomma, la formuletta a memoria non l’ha saputa leggere, ma sull’integrazione della famiglia non ci sono dubbi. E lo testimonia anche l’altro figlio della coppia. Un giovane ragazzo che ha preso le parti dei genitori scrivendo un messaggio direttamente al sindaco, in un impeto di orgoglio e indignazione: “Ma come ti permetti?”.
La risposta che arriva non ha il sapore di un mea culpa. Anzi. Guzzetti resta convinto di essere nel giusto e rintuzza il giovane, richiamandolo al rispetto dell’istituzione: “Io dico quello che mi pare. non mi pare ci siano nomi e cognomi. E magari non sto parlando di quell’episodio ma di altro. Come ti permetti tu di scrivere così a me”. Una risposta che non convince il ragazzo, che replica a sua volta: “Perché se permetti le descrizioni coincidono esattamente e dato che l’episodio è successo da poco tempo era chiaro che ti riferissi alla mia famiglia… e comunque io ti posso rivolgere la medesima domanda, come ti permetti di parlare così della mia famiglia?”. Il diverbio tra il giovane e il sindaco si infiamma, Guzzetti infila una serie di messaggi: “A) io dico quel cazzo che mi pare; b) non sono tenuto a fornirti spiegazioni; c) vedi di darmi del lei quando parli con me; d) se tu sapessi leggere capiresti che la mia provocazione non è alla tua famiglia ma alla politica italiana che consente a una cittadina che non conosce una parola di italiano di giurare; e) rappresentare l’Italia significa rappresentare uno Stato. Uno Stato che ha delle leggi. Se non piacciono queste leggi non è un problema mio, io ci sto benissimo qui”.
L’alterco si chiude con la considerazione del giovane: “… Manco fossi mio padre, il rispetto deve essere reciproco… se non sbaglio non ho mai mancato di rispetto fino a quando non hai deciso di mettere in causa la mia famiglia… l’articolo l’ho letto e non c’era bisogno di specificare che da quando mia sorella è diventata ‘donna’ non si fa vedere in giro… perché questo è un altro tentativo per sminuire gli extracomunitari davanti agli occhi della gente ribadendo il concetto della sottomissione della donna”. L’esempio del primo cittadino di Uboldo è stato seguito nei giorni scorsi anche dal sindaco leghista di Cairate, Paolo Mazzuchelli, che con le stesse motivazioni ha rimandato a casa Rani Pushpa, una donna indiana che non parla bene l’italiano. Pubblicamente elogiato da Salvini, Mazzuchelli ha ricevuto una tirata d’orecchie dal Prefetto di Varese Giorgio Zanzi che ha spiegato come “il sindaco non ha facoltà discrezionali” e che la cittadinanza va comunque concessa. Alla notizia della pubblica risposta del prefetto, il sindaco di Uboldo si è nuovamente infilato nel dibattito, spiegando che “in mancanza di discrezionalità io non faccio più nulla, perché il mio ruolo è inutile. Se si tratta di una cerimonia sterile non serve che la faccia il sindaco”.