Il nomignolo se l'è guardagnato quando, negli anni Settanta, conquistò il mercato della droga di Milano: l’incontro con Maria Serraino è avvenuto quasi per sbaglio. E' stata la nipote Marisa, protagonista di Lady ‘ndrangheta – il documentario sulle Madrine prodotto da Wildside in onda stasera, alle 21, su SkyTg24 – a raccontare di quella casa meneghina in piazza Prealpi, dove i Serraino abitano ancora
“Io ho fatto vent’anni di galera. Ho un ergastolo. Ora sono agli arresti domiciliari perché ho il cancro, ma Dio mi aiuta. Lui non mi castiga, perché io feci sempre bene al mondo”. La camera da letto pare un piccolo santuario. Candele accese, madonnine dipinte d’azzurro e icone religiose sui muri. E poi il rosario sul comodino, tra le foto dei figli ancora in vita e di quelli ormai scomparsi.
“Mi è sempre piaciuto l’ordine” – Maria Serraino ha un foulard blu in testa, il volto stanco e i movimenti affaticati da 85 anni di vita dura. Parla del suo passato come se non le appartenesse più, quasi raccontasse un film che ricorda ancora nei dettagli. Poi capitano quei momenti – quando maledice i figli pentiti, la polizia che “ci tormenta” o il cronista curioso – in cui lo sguardo cambia. E tutto quello che la rendeva quasi rassicurante – dall’età alla malattia che le ha permesso di uscire dal carcere – di colpo non conta più. In quegli attimi Maria torna a parlare come una mafiosa, a minacciare come solo la matriarca di una ‘ndrina sa fare: “C’è gente che ancora mi infastidisce. Adesso basta. Sennò mi tocca ammazzare tutti quanti”. L’incontro con “mamma eroina”, il nomignolo che si era guadagnata quando, negli anni Settanta, conquistò il mercato della droga di Milano, è avvenuto quasi per sbaglio. È stata la nipote Marisa, protagonista di Lady ‘ndrangheta – il documentario sulle Madrine prodotto da Wildside in onda stasera, alle 21, su SkyTg24 – a raccontare di quella casa meneghina in piazza Prealpi, dove i Serraino abitano ancora. E dove, oltre quarant’anni fa, fu allattata proprio da sua nonna. “Ho partorito mia figlia qui, sul letto –raccontalavecchia Serraino – Due settimane dopo è nata mia nipote Marisa: mia nuora non aveva latte, quindi lo davo io a tutte e due”, ricorda, lisciando le lenzuola bianche con la mano rugosa. È bastato citofonare perché Maria Serraino aprisse la sua casa, col garbo e la premura che si porta dietro dall’infanzia calabrese: facciamo il nome di Marisa, e questo è sufficiente. Ordina a un nipote di offrire un caffè, manda via una figlia che lamenta la presenza di un’estranea, ti fa sedere sul letto, accanto a lei. Fa partire una tarantella a tutto volume e parla a voce bassa. I parenti sono accalcati in cucina, azzardano piccole incursioni ma Serraino non li vuole intorno. Preferisce essere sola mentre torna con la mente ai giorni in cui era un capo, punto di riferimento per la ‘ndrangheta reggina. E mentre lo fa rivela le vecchie regole della ‘ndrangheta al Nord, e la sua idea di potere: “Ordine. Mi è sempre piaciuto. Se io dicevo di non fare niente, nessuno si muoveva”.
Alla conquista del Nord – Era il 1963 quando Maria Serraino decise di lasciare la Calabria per cercare fortuna “all’estero”, come dice lei: “Ero andata a Messina, e c’era un amico di mio marito che lavorava in una fabbrica grande al Nord. Allora gli dissi: se mi trovi lavoro ci vengo pure io. Avevo già 12 figli, tutti partoriti in casa. Stavo uscendo pazza. E così ce ne andammo tutti a Milano. Sono cinquant’anni che stiamo qua”. Ma all’epoca, ricorda, ancora “non c’era niente. Poi è cominciata la droga”. Ci ha pensato lei. Com’è che Maria Serraino è diventata mafiosa? “Lo è nata”, dice la nipote Marisa. Il suo regno era semplice: gestiva lo spaccio di eroina e hashish a Milano, esportava gli affari del clan all’estero – in Spagna, Nord Africa e America – grazie al figlio Emilio, e trovava protezione nella sua famiglia rimasta in Calabria.
“Andava tutto bene, all’inizio. Tenevo la piazza pulita. Mettiamo che volessero rubare una macchina: io non volevo. Provavano a bruciare un bar: io non volevo. Aiutavo tutto il popolo perché ognuno fa sacrifici per andare avanti, capisce? Non lo potevano fare, se no succedeva il casino. Io avevo nove fratelli in gioco.Una telefonata e uno di loro ammazzava tutti qua”. Per le emergenze poi c’era il primogenito Emilio, detto “il Conte”: “Raccontavo i problemi a mio figlio che era latitante in America e lui rispondeva: ‘Mamma, devi dire che non si permettano, perché in otto ore io sono lì’. Emilio era pericoloso. Cattivo. Prendeva la gente a testate. Però far ammazzare la gente mi dispiace. Ed Emilio era capace di fare del male … Non capisco proprio come abbia potuto pentirsi”. Mentre sparge sul letto fotografie dei suoi figli – che ha cresciuto perché diventassero i suoi soldati – mette da un lato quelle con i morti e dall’altro quelle con i vivi. E le immagini di Emilio e della figlia Rita – che con la sua testimonianza ha mandato in carcere l’intera famiglia, condannata a un totale di 1500 anni di prigione–finiscono nel mucchietto di chi non c’è più. C’è chi è morto di tumore, chi d’infarto e chi non ha resistito alla tentazione di quei chili di eroina che ogni giorno transitavano dalla loro casa. “Alla fine eravamo io e mia madre a iniettare la dose ai miei fratelli tossici – ricorda Rita nel documentario – perché non prendessero roba tagliata male. Cos’altro si poteva fare: preferisci un figlio drogato ma vivo o uno morto?”.
Della donna che un tempo era il volto della ‘ndrangheta al Nord rimangono il nome e certe vecchie abitudini, come quella di schierare ragazzini come pali per controllare piazza Prealpi. “Io mi chiamo Serraino, e il nome Serraino negli anni si fa sentire ancora. Ma il giudice mi fa uscire solo due ore al giorno, non di più”. Una condizione non scontata per lei che fu una delle prime tre donne nel Nord Italia a prendere l’ergastolo per mafia. La sua colpa, si legge nella sentenza, fu di aver guidato un’associazione criminale “che esercitava un controllo di tipo militare, realizzato mediante un sistema di vendette (…) e capace di affermare il suo dominio del territorio mediante l’eliminazione fisica dei concorrenti (…) e partecipe delle guerre di mafia mediante la fornitura costante di armi comuni da sparo e da guerra e mediante il finanziamento grazie alle enormi disponibilità provenienti dal traffico internazionale di stupefacenti e di armi da guerra”.
Una mamma ideale, nonostante tutto – Serraino oggi sembra avere solo due desideri: non sopravvivere a nessun altro dei suoi figli – alcuni ancora in carcere, altri appena usciti – e scontare il resto della pena sul suo letto, tra le sue cose: “Ho paura delle riforme, perché anche se sono vecchia e malata con questi governi di merda non si sa mai, potrebbero rimandarmi in galera. Per questo m’incazzo quando Marisa scrive i libri: l’attenzione è brutta, smuove tante cose. La gente, ormai, si deve dimenticare”. Per capire il carisma di Maria Serraino bisogna parlare con la persona che più di tutte dovrebbe odiarla: sua figlia Rita, che già a 17 anni, incinta, aveva ricevuto dalla madre il compito di tagliare l’eroina in bagno e venderla per strada. “Quando testimoniai contro la famiglia, mia madre era incazzata, mi avrebbe strangolata con le sue mani”. I parenti, durante i processi, cercarono usare la figlia Elena, neonata, per farla uscire allo scoperto e ucciderla. Ma Rita ha solo parole d’affetto: “Maria Serraino non farebbe del male a nessuno. Lei a modo suo ci ammazza, ma dopo ci ama…È la mamma che tutti vorrebbero avere”.
Da Il Fatto Quotidiano 6 marzo 2015