Onlus & Dintorni

Bilancio di sostenibilità, l’efficacia è solo sulla carta. E nessuno lo controlla

Il rendiconto sull'impatto sociale e ambientale delle attività di impresa, gli impegni verso i dipendenti e il rapporto con fornitori e clienti è volontario e non soggetto a certificazione. L'esperto: "Per ora è un esercizio autoreferenziale, pieno di parole e con pochi numeri". Eni ed Enel si piazzano in alto nella classifica di Transparency international nonostante le inchieste che coinvolgono gli ex vertici

Buoni risultati, sulla carta. Ma limitati alle aziende più grandi. E con un impatto concreto praticamente impossibile da dimostrare. Si parla del bilancio sociale o di sostenibilità, cioè il rendiconto in cui le imprese che intendono adottare un comportamento “socialmente responsabile” danno conto dell’impatto delle loro attività sul contesto sociale e ambientale, spiegano la propria politica di remunerazione e gli impegni verso i dipendenti, forniscono informazioni sul rapporto con clienti e fornitori e così via. Al contrario del bilancio di esercizio, si tratta di un documento non obbligatorio e non soggetto a controlli o certificazioni. Prepararlo e diffonderlo è una libera scelta, che può essere motivata da una reale volontà di trasparenza o da ragioni di immagine. Così come, pur essendoci linee guida internazionali e standard di rendicontazione, sono liberi il processo di raccolta delle informazioni e la scelta del “perimetro” da prendere in considerazione. La società di certificazione, quando viene interpellata, si limita ad attestare che “non emerge nulla che faccia pensare che il documento non sia stato preparato rispettando le linee guida” (in gergo si parla di “revisione limitata”).

Facile capire, dunque, come non ci siano garanzie di credibilità né, soprattutto, di efficacia ex post. Cioè non è detto che se un’azienda, preparando il bilancio sociale, individua un’area “debole”, l’anno dopo faccia il possibile per migliorare in quel campo. Se azionisti e manager “ci credono” lo faranno, altrimenti tutto resterà come prima. “Ci sono ancora ampi margini di discrezionalità nella struttura del bilancio e negli indicatori”, dice a ilfattoquotidiano.it Mario Molteni, ordinario di Economia aziendale all’università Cattolica nonché fondatore e direttore della scuola di formazione post laurea Altis e del Csr manager network, che raccoglie i professionisti italiani della responsabilità sociale di impresa. “Per ora, nonostante i grandi progressi fatti negli ultimi 15 anni, il bilancio di sostenibilità resta un librone pieno di parole e con pochi numeri. Non si è ancora arrivati a quantificare i benefìci generati e i danni sociali e ambientali creati. Di conseguenza i risultati non sono comparabili tra azienda e azienda. Non è un caso se gli analisti finanziari e le società di rating non prendono nemmeno di considerazione le informazioni che vi sono riportate. O si farà un salto di qualità, o questi documenti continueranno a prestare il fianco all’accusa di autoreferenzialità“, aggiunge.

Per Kpmg Italia in testa alla classifica della qualità dei bilanci – Eppure il rapporto 2013 della società di consulenza Kpmg sulla responsabilità sociale delle aziende (corporate responsibility o csr) non solo rileva che quasi l’80% dei 100 maggiori gruppi italiani pubblica un report di sostenibilità, ma li piazza anche in testa alla classifica mondiale della “qualità media” dei report stessi, con un punteggio di 85 su 100 contro il 70 su 100 delle imprese francesi e il 68 su 100 delle tedesche. Insomma, le società della Penisola sarebbero particolarmente virtuose nell’individuare indicatori attendibili dei progressi fatti, nel tener conto dell’impatto di tutta la loro “catena del valore”, nel coinvolgere i portatori di interessi (stakeholder), nel chiarire chi in azienda è responsabile delle performance in questo campo. Ma il risultato va letto alla luce di due avvertenze: innanzitutto la stragrande maggioranza delle aziende italiane sono medie e piccole, per cui la bella pagella dei grandi gruppi dice poco sul quadro complessivo del Paese sul fronte della csr. Ma soprattutto, bisogna tener conto che si parla sempre di criteri astratti. Per capirlo basta leggere alcuni degli indicatori che fanno parte della batteria degli standard messi a punto da Global reporting initiative (Gri), non profit statunitense i cui standard sono ritenuti validi a livello internazionale e vengono utilizzati anche dai gruppi della Penisola. Tra quelli sui diritti umani c’è, per esempio, la generica “identificazione delle operazioni con elevato rischio di ricorso al lavoro minorile“, senza alcun paletto su come vada individuato e arginato tale rischio. Tra i criteri economici si trova la “percentuale di spesa concentrata su fornitori locali in relazione alle sedi operative più significative”, ma non si definisce entro quale distanza debba trovarsi il fornitore per poter essere considerato “locale”. E, spiega Molteni, per quanto riguarda gli incidenti sul lavoro e i danni ambientali “è sufficiente indicare quanti se ne sono registrati, senza quantificare il valore, anche sociale, distrutto”.

Transparency incorona Eni. Nonostante le indagini per corruzione – Per valutare in concreto il grado di affidabilità delle informazioni contenute nei bilanci di sostenibilità vale la pena di fare qualche esempio. A novembre Eni, che ha pubblicato il primo nel 2006 e dal 2011 inserisce nella relazione finanziaria annuale un “consolidato di sostenibilità”, è stata proclamata da Transparency International “prima società al mondo nella trasparenza dell’informazione societaria”, con un punteggio di 7,3 punti su 10. L’associazione non governativa ha apprezzato in particolare “la trasparenza dei programmi anticorruzione e sulla reportistica organizzativa”. Un giudizio che non può non colpire, considerato che Claudio Descalzi, amministratore delegato del Cane a Sei zampe, è indagato proprio per corruzione mentre l’ex numero uno Paolo Scaroni è coinvolto, con la stessa ipotesi di reato, nell’inchiesta sul presunto pagamento di tangenti da parte della controllata Saipem. Quanto a Enel, che compare al 24esimo posto della classifica di Transparency, sull’azienda pubblica dell’energia elettrica pesa la sentenza del Tribunale di Rovigo che ha condannato gli ex amministratori Scaroni (ad dal 2002 al 2005) e Franco Tatò per disastro ambientale in relazione alle emissioni della centrale di Porto Tolle. Anche il gruppo dell’elettricità, del gas e della raccolta dei rifiuti Hera pubblica un ponderoso bilancio di sostenibilità. Ma, come evidenziato dalla puntata di Report del 16 novembre scorso, nelle 228 pagine di quello relativo al 2013 non si fa parola di interventi di bonifica sull’area della sua sede di Bologna, inquinata da idrocarburi policiclici pericolosi per la salute dei lavoratori. Né si parla della centrale Tirreno Power di Vado Ligure, sotto sequestro per superamento dei limiti di emissioni e al centro di due filoni di indagine per disastro ambientale e omicidio colposo. Eppure Hera ne è socia insieme a Gdf Suez, Sorgenia e Iren.

L’evoluzione degli standard e la nuova direttiva europea – Per stilare il bilancio di sostenibilità, come già visto, le società italiane utilizzano gli standard della Global reporting initiative. In alternativa ci sono quelli del Gruppo bilancio sociale (Gbs), associazione fondata a Milano da un gruppo di docenti universitari. Esistono poi linee guida specifiche per la pubblica amministrazione e per il terzo settore, che ha una normativa ad hoc. Per tutte le organizzazioni che assumono qualifica di impresa sociale, per esempio, il bilancio sociale è un obbligo. Ma nuove regole sono in arrivo da Bruxelles anche per le grandi imprese. In settembre infatti il Consiglio europeo ha dato il via libera a una direttiva sulla rendicontazione delle informazioni non finanziarie, già approvata dal Parlamento Ue. Il testo stabilisce che le imprese con più di 500 dipendenti o un fatturato di oltre 40 milioni di euro e tutte le aziende quotate, gli istituti di credito e le assicurazioni debbano allegare al bilancio annuale una dichiarazione con informazioni sociali e ambientali, sul trattamento del personale, sul rispetto dei diritti umani e sulla lotta alla corruzione. Se l’impresa non ha una politica specifica in una di queste aree dovrà spiegarne il motivo. Gli Stati membri hanno ora 24 mesi per recepire la direttiva nella legislazione nazionale, mentre la Commissione europea dovrà pubblicare una guida con indicazioni sulla metodologia da seguire per preparare il rendiconto.

“E’ un’ottima notizia perché il processo di evoluzione degli standard dovrà per forza accelerare”, prevede Molteni. “Ma l’importante è che si trovi il modo di misurare in termini numerici le esternalità (“effetti collaterali” di un’attività economica, ndr) positive e negative prodotte da un’azienda. Per questo il Csr manager network sta avviando una ricerca sul “ritorno economico degli investimenti in sostenibilità” (Rois): cercheremo di misurare il valore, per la società nel suo complesso e per l’impresa, delle varie politiche di sostenibilità. Inevitabilmente all’inizio ci baseremo su convenzioni e ipotesi discutibili, ma da qualche parte occorre iniziare”.