La spiegazione semplice sarebbe questa: Matteo Renzi ha guardato le prime due stagioni di House of Cards, si è letto i romanzi di Michael Dobbs pubblicati da Fazi (il terzo della trilogia, Atto Finale è uscito giovedì scorso) e ne ha colto qualche spunto.
Prendete la riforma della scuola: nella prima puntata della stagione uno, Frank Underwood (Kevin Spacey) passa a una giornalista ambiziosa il piano di riforma dell’educazione, un piano considerato troppo di sinistra, che viene bruciato dall’anticipazione sul giornale. Il segretario all’Istruzione Donald Blythe decade e inizia la sequenza di mosse che porterà Underwood a vendicarsi per la mancata promozione a segretario di Stato. Obiettivo finale: la Casa Bianca.
Italia 2015: Matteo Renzi ha bisogno di costringere le opposizioni a tornare in aula per votare legge elettorale e riforme istituzionali: sacrifica l’assunzione di 150 mila precari, niente decreto legge, se ne parlerà in Parlamento. Così vediamo se Forza Italia e Cinque Stelle vorranno continuare a disertare pagando il costo politico della furia dei precari che un’abile comunicazione guidata da Filippo Sensi saprà allontanare dal governo. Su Sky Atlantic e in America su Netflix è in corso la terza stagione di House of Cards, la serie sceneggiata da Beau Willimon che ha cambiato il modo di raccontare la politica in tv. Nella prima puntata Frank Underwood, ora presidente, si fa intervistare nello show di Stephen Colbert, il nuovo David Letterman, e annuncia America Works. Un piano per creare milioni di posti di lavoro a qualunque prezzo, anche tagliando brandelli di welfare state, tutto pur di far salire il numero di occupati nelle statistiche ufficiali. Il Jobs Act è un filo meno drastico, ma la linea è quella. E i Consigli dei ministri renziani non sono molto diversi dalle riunioni di Frank con il suo staff: “Avete parlato con i giornalisti di disaccordi tra noi, fatelo ancora e siete fuori”. Un ministro prova a prendere la parola: “No, io parlo per primo, poi parli tu, Paul”. Pochi minuti dopo, Paul verrà accompagnato alla porta da un lobbista diventato consulente del presidente. Il ministro dell’Istruzione Stefania Giannini è ancora al suo posto soltanto perché Renzi ha deciso che rimuoverla gli creerebbe troppi nuovi problemi, non certo perché il premier è più clemente di Frank Underwood.
Quindi Renzi imita il personaggio di Kevin Spacey anche se, per quanto ne sappiamo, non ha mai strozzato cani o ucciso giornalisti? C’è una spiegazione più narrativa: forse House of Cards è riuscito a cogliere l’essenza del potere, ne ha distillato una rappresentazione universale grazie, prima di tutto, all’esperienza diretta di Michael Dobbs che negli Anni Ottanta è stato capo dello staff di Margaret Thatcher in Gran Bretagna. Dai suoi romanzi è nata la serie tv della Bcc e poi il remake americano di Netflix. Ogni storia di potere è una storia di congiure, di ascese piene di promesse e tragedie nascoste e rapidi, violenti, declini. Nella scalata renziana, per esempio, ci sono mille Doug Stamper, il collaboratore di Underwood usato per i lavori più eticamente discutibili che poi viene scaricato quando non è più utile ed è diventato un pericolo (l’elenco dei renziani immolati in nome dell’ascesa del capo è lunghissimo, da Giuliano da Empoli a Matteo Richetti). E anche la dimensione machiavellica, nel senso del fine che giustifica qualunque mezzo adottato, non sarebbe una peculiarità individuale di Underwood o Renzi, ma una costante dell’azione politica. Nel 1986, con Bettino Craxi regnante (il nostro miglior epigono di Frank Underwood) su Micromega Norberto Bobbio analizzava le giustificazioni addotte a beneficio di politici che si muovono lontano dalla morale comune. Questa la spiegazione che meglio si attaglia all’approccio narrativo di House of Cards: “Ciò che appare a prima vista una violazione dell’ordine morale, commessa dal detentore del potere politico, altro non è che una deroga alla legge morale compiuta in una circostanza eccezionale. In altre parole, ciò che giustifica la violazione è la eccezionalità della situazione in cui il sovrano si è trovato a operare”.
Però Underwood sembra adatto a raccontare soltanto il potere renziano, non quello di Enrico Letta, Romano Prodi o anche Silvio Berlusconi. E allora forse serve una terza spiegazione. Underwood e Renzi sono simili perché hanno lo stesso movente profondo: l’ambizione pura, slegata da ogni debito a una tradizione culturale (come i democristiani alla Sergio Mattarella) o interesse materiale (la difesa della “roba” che ha spinto in politica Berlusconi). Come si vede nei romanzi di Dobbs e nella serie Netflix, Underwood non ha un’idea di Paese, è post ideologico perché le idee sono vincoli che limitano le possibilità. Invece il politico vincente è quello che antepone la propria sopravvivenza a ogni altra istanza. Anche se così ammette di derogare all’etica e alla morale per i propri interessi e non per ottenere quelle “gran cose” che secondo Niccolò Machiavelli costituiscono l’obiettivo dell’azione politica di ogni buon principe. Nella terza serie di House of Cards Underwood ha un problema che presto si porrà anche Renzi: essere eletto, dopo aver conquistato il potere con un golpe di palazzo. E avere consenso può essere più difficile che ottenere potere. Nel terzo libro di Dobbs, un Underwood (che nei romanzi è inglese e si chiama Urquhart) ormai premier da dieci anni vuole rimanere nella storia. E per riuscirci ha bisogno della sua guerra. Il premier di Rignano sull’Arno forse leggerà Atto finale per prepararsi. Per ora non può ambire a molto di più che una foto ricordo con Vladimir Putin mentre la crisi ucraina è gestita dal molle François Hollande e da Angela Merkel, l’unica che riuscirebbe a tenere testa a un vero Underwood.
Ma il ragazzo è giovane, dategli tempo.
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