Caro presidente, sono una donna qualunque, ho ascoltato il suo discorso per l’8 marzo, e non so perché, anche se ha detto cose giuste, vere (tra l’altro non la ringrazierò mai abbastanza di aver cominciato con “siete professioniste” e non subito “lavoratrici dipendenti” ha fatto in un attimo più passi lei che dieci anni di Pd) le sue parole mi hanno messo una vaga sensazione di disagio.
Ci ho messo un po’ a capire perché, visto che ci ha fatto molti elogi, ha riconosciuto che su di noi pesa il peso maggiore della crisi economica, che a noi tocca di provvedere “in maniera prevalente all’educazione dei figli e alla cura degli anziani”, che siamo il “volto prevalente della solidarietà, della coesione sociale”. Vero, tutto vero, compreso il fatto – anche se dirlo così sembra un po’ lapalissiano – che senza di noi il paese sarebbe più povero e più ingiusto.
E allora perché quella vaga sensazione di malessere? Le sue parole ci inchiodano a una foto – quella delle donne che nutrono i figli e rimboccano le coperte agli anziani e lo fanno persino, come ha detto curiosamente, in maniera ecologica – dalla quale sembra angosciosamente sembra non essere scampo. Anzi, messa così, sembra che la società possa salvarsi solo grazie a noi e quindi, rovesciando la tesi, non possiamo assolutamente pensare di uscire da quel ruolo, pena il collasso generale. Il che probabilmente è vero, ma a prezzo di quale sofferenza? Non c’è traccia nel suo discorso delle pesanti conseguenze su di noi di questo compito, non c’è accenno – anche – al fatto che noi non possiamo più farcela, non vogliamo più farcela, che questo fardello è insopportabile, ingiusto, intollerabile.
Si limiti a invitare gli uomini a ringraziarci per ciò che facciamo, e anche in questo invito, giusto, per carità, c’è come l’idea di un compito che deve continuare ad essere assolto, per il quale il mondo deve manifestare tutta la sua gratitudine, certo, ma – di nuovo – senza che le cose cambino granché. Manca completamente in ciò che ha detto l’alternativa per noi. Sarebbe bastato parlare di quei servizi fondamentali che mancano, puntare il dito sulle carenze incredibili e surreali di uno stato sociale che per le madri non c’è, spronare il governo a fare di più, a dare risposte certe, soprattutto dire che così non si può continuare, che le donne soffrono troppo e il peso è troppo grande, che una loro, parziale ma significativa, emancipazione da quei compiti è giusta, necessaria, urgente.
Invece, alla fine, ci ha rimandato un’immagine tradizionalista. Elogiandoci, sì, ma come una specie di santino mistico. Mi sono sentita intrappolata in un disegno che non mi corrisponde, una natura che non è assolutamente la mia, una condizione che mi rende oppressa, e come me molte donne che vorrebbero libertà e si trovano nella morsa schiacciante della cura a tutti i costi. Ho pensato, e sentito, che le donne di cui lei parlava sono le donne della sua generazione, forse, non della mia, le quali tra l’altro felici della loro condizione probabilmente non erano.
Non ci serviva insomma l’elogio della madre che resta ad accudire il suo piccolo perché l’asilo nido non ha preso suo figlio. Ci serviva un monito contro i comuni che respingono i bambini e contro la cultura tradizionalista e oppressiva che si nasconde dietro questo rifiuto, (altro che la mancanza di soldi, è soprattutto una questione di cultura). Troppo comode, troppo concilianti, troppo in fondo ecumeniche le sue parole. Così tutto si risolve in un grazie di un giorno – come quello che Grasso ha invitato a mandare via tweet – ma i rapporti di forza non mutano. E con essi, neanche la nostra situazione.