Il sorriso di Pol Pot, dello scrittore svedese Peter Fröberg Idling (pubblicato in Italia da Iperborea e tradotto da Laura Cangemi), è uno di quei libri indimenticabili che vorresti non finissero mai, dove il meglio di quello che qualcuno ha definito New Journalism si miscela sapientemente con passaggi di delicata narrativa e di crudo reportage sul campo. Mi sono già occupato di Idling, del suo romanzo Canto della tempesta che verrà, dove echi del miglior Graham Greene si integrano a uno stile melodioso che a tratti ricorda William Somerset Maugham. Ne Il sorriso di Pol Pot non ci sono tracce di cattivi maestri, ma lavori, altrettanto importanti e bellissimi, a cui il libro può essere affiancato come opera riuscita al cento per cento, penso soprattutto a Il forziere di Zanzibar di Aidan Hartley, HHhH. Il cervello di Himmler si chiama Heydrich di Laurent Binet, Congo di David van Reybrouck, Operazione massacro di Rodolfo Walsh, Dispacci di Michael Herr, Beirut. Storia di una città di Samir Kassir, Senza perdere la tenerezza di Paco Ignacio Taibo II.
Nell’estate del 1978 un Boeing 747 cinese atterra nella Kampuchea Democratica con a bordo una delegazione dell’Associazione Svezia-Cambogia, guidata da Jan Myrdal, uno dei più influenti intellettuali svedesi del suo tempo, figlio dei premi Nobel Alva e Gunnar Myrdal. I quattro svedesi sono tra i pochissimi stranieri a cui è stato consentito l’ingresso nel paese dove si è verificata la rivoluzione comunista più radicale a cui il mondo abbia mai assistito. Sei mesi dopo la loro visita si scopre che, nel corso dei tre anni e mezzo nei quali Pol Pot è stato al potere, quasi due milioni di persone (corrispondenti a un quarto della popolazione) sono stati giustiziati o sono morti di fame, in schiavitù. Ma durante il viaggio di mille chilometri attraverso il paese, i quattro delegati non hanno visto né morte né terrore, né si sono accorti delle devastazioni in atto, descrivendo anzi la rivoluzione dei Khmer Rossi come pienamente riuscita, un modello per le democrazie europee. Com’è possibile che quattro studiosi specializzati nel Sudest asiatico, abbiano compiuto un viaggio nel mezzo di uno dei più imponenti eccidi del Novecento senza vedere nulla? A trent’anni dal genocidio, mentre sta per arrivare la prima sentenza contro i gerarchi “rossi” superstiti, Peter Fröberg Idling ha compiuto lo stesso viaggio per far luce su questo enorme malinteso. Ha letto e scandagliato documenti, immagini e giornali dell’epoca; ha ripreso contatto coi protagonisti della vicenda, intervistandoli e indagando su quell’esperienza. Il risultato è un reportage avventuroso, un prezioso documento storico su uno degli episodi più sconcertanti della storia mondiale recente e sulla potenza accecante delle ideologie.
Meglio uccidere un innocente per errore che tenersi un nemico! (…) Sia l’S-21 che Aushwitz erano dei campi di sterminio. La differenza è che all’S-21 si credeva di poter spremere qualcosa ai prigionieri prima di sopprimerli. Quelli che erano condotti attraverso i cancelli dell’S-21 venivano percepiti come nemici attivi. Avevano agito contro la rivoluzione. Nella Germania nazista capitava che ai prigionieri fossero affidati degli incarichi , nei campi di morte. All’S-21 era impensabile. Lì neanche gli aguzzini erano al di sopra di ogni sospetto: nel corso dei tre anni di esistenza del centro, molte guardie furono a loro volta arrestate e giustiziate. Era sufficiente appisolarsi al proprio posto, o infliggere colpi troppo leggeri o troppo pesanti quando qualcuno veniva torturato. O che un prigioniero morisse a causa delle lesioni prima che la sequenza di interrogatori fosse ritenuta conclusa. Nella Germania nazista la colpa era del sangue, e identificare quelli che si riteneva fossero i nemici era relativamente semplice. I nazisti vedevano i propri nemici a gruppi. Ebrei, rom, omosessuali, e così via. Nella Kampuchea Democratica, e in una serie di altre dittature comuniste, chiunque poteva essere un nemico. Il crimine non risiedeva nel sangue o nei geni, ma nel pensiero, e dunque tutti erano potenziali controrivoluzionari. Di conseguenza a nessuno era concesso di sentirsi al sicuro (…) La libertà è assenza di disciplina, assenza di morale!