Si calano lungo le pareti delle Alpi Apuane e rimangono sospesi per ore sulle voragini bianche delle cave di marmo. Ascoltano la montagna, la osservano, la curano, come ragni appesi sugli abissi che silenziosi e minuziosi tessono la loro ragnatela. Ché in questo caso però non è una trappola ma la salvezza. Sono i tecchiaioli, operai che nelle cave di marmo apuane sorvegliano e puliscono il fronte cava (la tecchia, in dialetto carrarese) per eliminare i massi pericolanti, che cadendo quindi potrebbero causare infortuni. Sono loro gli “angeli custodi” dei cavatori: lavorano in condizioni estreme per la sicurezza degli altri lavoratori. Una delle professioni più antiche, faticose e allo stesso tempo affascinanti di questa terra che adesso viene raccontata in un documentario, in fase di realizzazione attraverso un progetto di crowdfunding, di Luca Galassi, giornalista, documentarista. Si chiamerà Ragni bianchi e sarà “un tributo – spiega il giornalista – a una delle professioni più faticose e affascinanti di una terra benedetta e maledetta dal più incomparabile degli scenari”.
Ben pochi conoscono l’esistenza di questa figura, il tecchiaiolo. Gli stessi carraresi se ne sono dimenticati. “Sono cresciuto all’ombra, e alla luce, delle Apuane – spiega a FQ Magazine Galassi – dove ho visto per anni, incantato, il lavoro dei cavatori, che consideravo tra i più aspri in assoluto. Ma quando, durante un pranzo di Natale, il marito di mia cugina mi ha chiesto di seguirlo per scattare qualche foto mentre lavorava, ho scoperto che nella mia terra esisteva qualcosa di ancora più faticoso e logorante. Ho scoperto un mestiere antico e moderno, dove permane, ineludibile, il quotidiano confronto con il rischio, la fatica e, talvolta, la paura”.
Le immagini sono state girate interamente nello scenario tanto innaturale e alienante quanto mozzafiato e seducente delle cave. Pareti e pareti bianche a perdita d’occhio e gallerie profonde che come gole trascinano nello stomaco della montagna. È quello il posto di lavoro dei tecchiaioli, che quindi operano nelle condizioni più estreme e alle intemperie del tempo: caldo, freddo, vento. Tutti i giorni, tutto l’anno. Appesi, immersi nell’accecante bianco del marmo. Fino agli anni ’90 erano gli stessi cavatori a calarsi negli strapiombi imbragati a una rudimentale corda di canapone. Adesso lo fanno professionisti con tecniche ed equipaggiamento mutuati dall’alpinismo e dalla speleologia. Sono riuniti in una cooperativa: la Apian, di cui fanno parte tre squadre da quattro persone (più l’amministrativo). Girano di cava in cava, fermandosi due o tre mesi: tanto serve per mettere in sicurezza il fronte roccioso. Un’operazione che svolgono con ferri antichi: il martello, con cui saggiano la tenuta della parete e il paletto, con cui scalzano massi e placche incombenti sui piazzali di lavorazione. Galassi li ha seguiti per mesi riprendendoli a lavoro, facendosi raccontare le tecniche, la storia, le emozioni, e scoprendo il rapporto totalizzante che questi lavoratori instaurano con la montagna.
“Attraverso il tecchiaiolo – racconta il giornalista a FQ Magazine– è possibile costruire un epos del rapporto dell’uomo con la sua terra. Tale figura è l’erede umile e valente di una tradizione arcaica che, oggi come allora, indurisce e consuma. Il tecchiaiolo vive un radicamento totale con un territorio che io considero magico, sospeso com’è tra vette e abissi. Come un ragno, imbiancato dalla polvere di marmo, resta abbarbicato per ore alla nuda roccia che domina il mare, nella calura estiva come nel gelo dell’inverno. Nella sua professione vi è la fedeltà ai saperi, agli strumenti e ai valori di generazioni forgiate dal sacrificio del lavoro in cava. Vi è la passione per l’alpinismo e la speleologia. Vi è infine la coscienza di una scelta difficile, di un amore conflittuale per una montagna che si ama e, al contempo, si è costretti a ferire”.
Carrarese di origine, Galassi ha svolto per anni, con Emergency, la professione di reporter, realizzando servizi, fotoreportage e documentari da tutto il mondo, per poi tornare in Toscana, dove lavora come videomaker indipendente. È in forma del tutto autonoma che sta producendo Ragni bianchi: “Il mercato del documentario è ostico, talvolta spietato – spiega – Scarseggiano i finanziamenti per registi indipendenti e spesso le risorse provengono dall’alto. Mi sono chiesto allora perché non affidarsi a uno strumento in Italia ancora relativamente nuovo, ma nei Paesi anglofoni ormai avviato con successo: il crowdfunding, ovvero la produzione collettiva dal basso”.