Il notiziario di Bloomberg del 25 febbraio svela le preoccupazioni della Tepco, la corporation elettrica giapponese, che, a quattro anni dalla fusione del nocciolo dei reattori di Fukushima e delle barre di combustibile esauste, sta indagando le cause di un picco di livelli di radiazione registrato a febbraio nell’acqua di drenaggio riversata nell’oceano Pacifico.
Evidentemente, l’acqua piovana viene ancor oggi contaminata dal contatto con sostanze radioattive. La Tepco aveva già scoperto 23.000 becquerel per litro di Cesio 137 nell’acqua piovana accumulata sul tetto dell’edificio del reattore n° 2, quando il limite legale per il rilascio di cesio 137 dovrebbe non superare i 90 becquerel per litro. Una dose mortale, che permane e si diffonde nel tempo, in aggiunta al fatto che una simile esposizione aumenta in modo incalcolabile lo sviluppo di tumori. Evidentemente, le perdite nell’oceano sono ancora in corso, anche dopo l’evacuazione di 160.000 persone nella zona e dopo che il governo giapponese si era prefisso di bonificare 11 delle municipalità più gravemente contaminate della Prefettura di Fukushima entro il marzo 2014, per ridurre la dose annua a 1 milliSievert.
La presenza di acqua radioattiva costituisce una novità a cui l’incidente di Chernobyl non ci aveva esposto: i reattori di Fukushima, al contrario di quello ucraino, sono reattori moderati ad acqua e la fusione del nocciolo, se c’è sversamento in mare dell’acqua di raffreddamento, comporta una diffusione delle radiazioni attraverso la dinamica delle correnti e la propagazione attraverso le catene alimentari che l’oceano ospita. Purtroppo le informazioni che abbiamo seguono lo standard di segretezza e non trasparenza di tutto il sistema nucleare: nulla è sotto controllo e ormai i dati sulla contaminazione e le conseguenze sanitarie sono stati talmente nascosti e manipolati fin dall’inizio, che è veramente difficile fare bilanci e previsioni serie.
Occorrerebbe riflettere a fondo in questo quarto anniversario e chiedersi come sia possibile che gli analisti della Iaea (l’Agenzia per l’energia nucleare) possano ancora sostenere che dal 2015 l’industria nucleare dovrà creare 12 gigawatt di potenza (grosso modo 10 reattori!) ogni anno per il prossimo decennio, al fine di contribuire al raggiungimento dell’obiettivo di un aumento di temperatura non superiore ai 2°C. La Cina per prima si appresta a costruire 21 centrali e a metterne in progettazione altre 27, ma sta incontrando serie opposizioni da parte delle popolazioni e forti dubbi nei gruppi dirigenti. Ancora una volta si divaricano le decisioni dei gruppi dominanti dalle aspettative della gente comune e si indicano soluzioni sbagliate e insostenibili, non tenendo in conto l’alternativa ormai concretamente realizzabile di un sistema energetico in armonia con i processi naturali e di pace. Già, perché questa è la questione all’ordine del giorno per il futuro del pianeta.
La dimensione energetica dei processi radioattivi è fuori scala rispetto alla normale percezione dei nostri sensi e non sappiamo controllarne appieno gli effetti sulla vita. Gli incidenti registrati sollevano una questione che va al di là del tempo e del luogo in cui sono avvenuti: il problema del fallout radioattivo globale, dovuto a Fukushima, ma anche a Chernobyl del 1986, a Three Mile Island del 1979, ad una quantità di incidenti minori sconosciuti, e soprattutto a decenni di test per mettere a punto gli arsenali atomici (i 511 test atmosferici dopo la seconda guerra mondiale hanno raggiunto una potenza totale di 438 megatoni, pari a 29.000 bombe come quelle di Hiroshima!).
A che prezzo di salute e di decessi si può auspicare un futuro per una tecnologia che si rivela intrinsecamente insicura e imponderabile nelle sue ricadute? In tempi in cui si ridislocano armi letali assemblate con i prodotti delle fissioni all’interno di impianti destinati all’elettricità, è bene non dimenticare che nucleare civile e militare spesso si sono sostenuti l’un l’altro.