Si può affermare certamente che la pubblicazione dell’ Opera poetica di Emilio Villa (L’Orma, 2014) sia la fine di una ‘lunga marcia’. Una marcia spesso ostacolata dai venti e dalle tempeste di sabbia ostili della società delle lettere, dalla siccità di una critica maldisposta e spesso cieca, dalla pioggia di noncuranza dei media e dell’accademia (così come di tanta anti-accademia), da una serie di terremoti editoriali che hanno spazzato via tanti precedenti tentativi.
Se la ‘lunga marcia’ infine è giunta al suo approdo lo si deve prima di tutto alla testarda dedizione di Aldo Tagliaferri, affiancato in questi ultimi anni dall’indispensabile lavoro critico di Cecilia Bello Minciacchi che con lui, prima di quest’ultima pubblicazione, ha curato una serie di altre uscite parziali del poeta lombardo, né si potrà dimenticare la costante attenzione e disponibilità al rischio di un critico avveduto come Andrea Cortellessa il quale, dopo aver dato spazio nella sua collana FuoriFormato alla riedizione completa degli scritti d’arte, ha raddoppiato, offrendo la possibilità di realizzare quest’ultima raccolta.
A questa marcia ho partecipato io stesso, come parte di quel Baldus che proprio ripresentando Villa, agli inizi dei ‘90, iniziava le sue pubblicazioni – non a caso con una nota di Tagliaferri – e da Villa sceglieva di ripartire, qualche lustro dopo, all’esordio della sua seconda serie.
Ne sono dunque particolarmente felice.
Grazie alla pubblicazione di questo possente tomo (circa 800 pagine) Villa è così infine entrato nel salotto buono della letteratura italiana; i grandi media cartacei, infine, si sono accorti di lui. Se ne parla sul Corsera, in un lungo pezzo di Stefano Galaverni, così come su Repubblica, in un’informata e ampia presentazione di Francesco Erbani.
In entrambi i casi ne esce un ritratto apprezzabilmente curato di un autore così singolare e scomodo, capace di sparigliare le carte d’ogni poetica, di scrivere tanto in italiano, quanto in francese, latino, portoghese, traduttore dalle lingue antiche e critico d’arte, d’intuire la forza di tanta pittura contemporanea, a partire da Burri e Nuvolo, schivo tanto quanto travolgente nella sua scrittura e nelle sue scelte ‘nomadiche: Villadrome, come l’aveva definito Duchamp, è stato un acceleratore di poetiche, un esploratore del futuro e il migliore degli archeologi.
Preferisco dunque rimandare a esse e limitarmi qui a due punti, se volete a due provocazioni, anche per rendere onore a chi della provocazione fece parte fondamentale del suo operare.
La prima: che Villa sia stato un ‘clandestino’ della poesia, come lo ha felicemente definito Aldo Tagliaferri, non c’è dubbio alcuno. Al punto che Cecilia Bello Minciacchi, che è studiosa attentissima, non manca di far notare, nella sua ‘Introduzione’, quanto di ci sia di paradossale in un’antologia dell’opera poetica villiana, in una raccolta dei materiali di un autore che durante tutta la sua vita ha fatto del suo meglio per disperdere e rendere invisibile tutto quanto produceva.
D’altra parte, però, questo sottolineare esclusivamente la clandestinità di Villa, come fanno la maggior parte delle recensioni pubblicate, rischia di mascherare un altro aspetto assolutamente fondamentale della sua opera la quale, pur essendo eccentrica rispetto al contesto nazionale, pone una serie di questioni che saranno fondamentali nello sviluppo della poesia successiva: il furore sperimentale di Villa, che torce la lingua, mescola i timbri e i registri, scava nel senso, ma insieme riscopre radici, che allude al canone per riusarlo in modo patentemente illegittimo e cavalca il mito per precipitarlo al fondo del maccheronico, coinvolge molti di coloro che verranno dopo, tanto Sanguineti, Balestrini, Giuliani e Pagliarani, quanto, ad esempio, Zanzotto e per certi versi (non paia eresia) perfino Raboni.
Espliciti in questo senso sono tanto il silenzio piccato di Sanguineti e Giuliani, quanto l’esplicita ammirazione di Raboni, Zanzotto e Balestrini.
Per quanto Villa non voglia essere preso in considerazione, cioè, il prenderlo in considerazione dovrebbe indurci a ripensare il Canone del secondo Novecento, a costo di scoprire parentele inedite e per alcuni sin imbarazzanti.
Villa dimostra come già all’inizio degli anni ’50 a qualcuno era chiaro come fosse in via di esaurimento il valore normativo della tradizione e dunque il senso stesso del violarlo, senza che questo significasse arrendersi alla marmellata postmoderna, né implicasse la rinuncia alla ricerca di forme sempre più efficacemente contemporanee, ben lontane dall’onanismo nostalgico di tanto neo-orfismo che occuperà la scena dopo il tramonto dell’ipotesi neo-avanguardista.
Villa sembra aver compreso con chiarezza come ogni Tradizione sia genealogia delle Avanguardie, come la maniera migliore di rispettare una tradizione sia tradirla, più vicino in questo ai Noigandres brasiliani che a Sanguineti e Giuliani, più cannibale, sentimentalmente cannibale e ‘caldo’, che ‘cinico’ e algido.
Non solo, ma, anche se non è qui in gioco un problema di primogenitura, peraltro indiscutibile, la sua eccentricità sincronica è solo la carica propulsiva che gli dà, oggi, una capacità diacronica assolutamente unica di essere ‘contemporaneo’ e di parlare a chi scrive nel nostro presente con una chiarezza che è solo dei Maestri.
Non è semplicemente parte del Canone, Villa, ma ci costringe a riscriverlo, rinunciando a categorie ed etichette forse ormai usurate.
Continuare a tenerlo rinchiuso nello steccato dell’eccezione, della clandestinità, può rischiare di disinnescare il congegno esplosivo che le sue poesie hanno posto alle fondamenta del nostro più recente passato poetico.
La seconda: Villa non è stato certo un poeta orale, performativo. Il suo interesse verso la poesia ‘non lineare’ si è piuttosto diretto verso esperimenti visivi, a volte più vicini al grafismo artaudiano che alle coeve esperienze italiane, tanto ‘visive’ quanto ‘concrete’.
Eppure è innegabile – imho – un aspetto smaccatamente orale delle sue composizioni, al punto che la sua diffidenza verso il linguaggio, acutamente sottolineata da Tagliaferri, farebbe venire in mente una presa di partito a favore della ‘parole’ e contro la ‘langue’.
Ma c’è di più, molto di più. Intanto la ritmica dei suoi testi, il loro proporsi sotto forma di nenia, di tiritera, o di ‘comizio’ (si pensi a Comizio 1943), la mescolanza non solo di lingue diverse, ma di diversi registri, differenti altezze e ‘armonie’, di composizioni sinfoniche controllatissime e complesse, mescolate a dissonanze, a graffi sonori alla maniera di Varèse, a lallazioni e singulti linguistici possiede una dimensione ‘performativa’ evidente, che spiega bene peraltro il suo interesse nei confronti del lavoro di Carmelo Bene a cui dedica una fantasmagorica Letania.
Il suo stesso cammino ‘á rebours’, alla ricerca delle ‘origini’, è certamente un percorso che utilizza la scrittura solo per abbandonarla, è un ritorno delle parole poetiche da un lungo esilio: l’esilio dalla voce.
Potrei andare avanti a lungo, ricordando alcuni dei suoi titoli, che esplicitamente evocano la vocalità, dal Comizio 1943 alla già citata Letania per Carmelo Bene, sino alle ultime Sybillae, visto che certamente quella della Sibilla è lingua detta, non scritta.
La parola è prigioniera dei segni, sembra suggerirci Villa, e il percorso della sua liberazione è un percorso ‘dissipativo’ in cui lo scritto si autoannulla, rifiuta il ‘libro’, cerca spazi e ‘tempi’ nuovi’. Vuole uscire dalla Storia, per rientrare nel tempo, il tempo della parola abitata dalla voce. Tagliaferri stesso, in chiusa della sua Postfazione nota com: «di fatto la poesia villiana spesso si giova, per uscire dalla freddezza cristallina della pagina scritta, di una lettura in cui intervenga e si faccia sentire una vocazione alla vocalità e alla teatralità».
Insomma, il suo dissipare lo scritto sembra un’affannata, ossessiva ricerca della voce che alla fine approda, però, al silenzio afasico.
Il ritorno alle origini non è più possibile, quel «trou» che egli ha scorto al cuore del discorso è un abisso senza fine, irrimediabilmente silenzioso.
La parola non è più pronunciabile e con essa si dissolve il linguaggio stesso.
È questa dissoluzione che Villa rappresenta nella sua opera. È a questo che alludeva, forse, in una bellissima Sybilla, quando affermava icasticamente: «in realtà non sappiamo dire cosa sia il dire».