Un’altra festa della donna è finita.
La prima (e ultima) che ho festeggiato avevo 18 anni. Un gruppo di compagne di classe mi aveva invitato a una festa dentro a un locale da ballo di solito frequentato da over quaranta. Verso le undici, la ressa sudaticcia a ridosso del palco aspettava il vagheggiato spogliarellista. E quando l’uomo, avvezzo a platee incandescenti, ha cominciato a spogliarsi, le amiche con me si sono trasformate in fameliche satanasse e hanno cominciato a scandire con ritmo sempre più incalzante: “nu-do! nu-do! nu-do!”. Il performer, dopo l’ultimo numero di rito, con tanto di suspense, è restato con la mutanda sospensoria a farsi rimirare per qualche secondo. Brufoletti da depilazione e chiappette impertinenti incluse. E ha lasciato, chi sperava in un nudo integrale, con un filino di bavosa delusione.
Un’altra festa della donna è finita.
L’eco delle belle parole, quelle giuste, doverose, si ripiega su se stesso per essere tirato fuori lustro come ogni anno, fra 365 giorni.
Gli interventi (triplicati) in prossimità dell’otto marzo, a sostegno della parità di diritti, ricordano tanto l’Imu di Berlusconi o gli ottanta euro di Renzi. Populismo da campagna elettorale di garantito riscontro.
Perché parlare dei diritti delle donne è come dire che è giusto aiutare i bambini africani, combattere l’evasione fiscale o fermare l’inquinamento globale. Splendidi manifesti di cambiamento ad uso di politici più o meno scafati da sventolare nei talk che servono a rinvigorire la consueta volontà: cambiare tutto affinché niente cambi.
In America hanno fatto più passi in avanti rispetto a noi, lo fanno non perché sono più buoni, ma perché la lungimiranza del business è la miglior pillola per far digerire le pari opportunità.
C’è una teoria tuttavia che mi sorprende. Quella riportata da una della donne più potenti degli States, Sheryl Sandberg, Coo di Facebook, sul NYT qualche giorno fa. La Sandberg inizia sostenendo che assumendo le donne si importa nelle aziende nuove conoscenze, abilità, network diversi e lavoratori inclini a prendere meno rischi inutili. Ma se questo non è particolarmente eccitante per stimolare la voglia di uguaglianza, c’è un’altra buona ragione per farlo. Una donna soddisfatta con un lavoro ben pagato e un marito a casa disposto a caricare la lavatrice e aiutare coi bambini, è più propensa a fare sesso.
L’assunto della Sandberg è presente anche nel suo sito leanin.org, sotto forma di consigli per uomini su come essere propositivi in modo da ottenere l’eterna ricompensa. Altro che diatribe ideologiche e battaglie intellettuali. C’è un concetto ben più semplice da masticare: ‘cchiù pilu pe’ tutti’.
Il suggerimento del risarcimento sessuale – che soddisfa entrambi, è ovvio – è tuttavia grossolano per molti motivi ma principalmente perché presume che se un uomo non ci arriva in altro modo, beh c’è sempre il premio di consolazione per barattare il favore. Uno scambio. “Caro mi carichi la lavatrice?”, “Se dopo me la dai, con piacere!”.
Non è molto dissimile da quei piccoli ricatti a cui abituiamo i nostri figli quando sono piccoli.
Incentivando, anziché proporre ricette concrete per cambiare la mentalità, la tesi che ‘donne più indipendenti = più sesso in famiglia’ (che magari è pure vero ) si accantona la potenzialità di abbracciare una giusta causa perché è giusto che sia così. Senza tornaconto. Il fatto che la teoria venga esposta da una donna di successo, mi convince sempre più che le donne sono spesso marinai che remano controvento nel portare avanti le loro battaglie.
Ma poi, siamo sicuri che le dritte della Sandberg valgano anche per quelle donne che ogni mattina si alzano per andare in un posto di lavoro demansionato e con una paga da fame?
Ma intanto, mentre aspettiamo Godot e una soluzione alle molte domande, generazioni trasversali di donne, non avranno altro di meglio da augurarsi che attendere un anno intero per uscire con le amiche a guardare un bruttoccio in mutande e ricevere un mazzolino di fiori puzzolenti.