L’ultimo scontro è andato in scena venerdì scorso a Roma. In Piazza Venezia centinaia di autisti delle auto a noleggio, protestavano contro la delibera che rischia di sfrattare dalla Capitale i furbi che lavorano in città ma hanno un’autorizzazione rilasciata da un altro Comune (rischiano 3.700 imprese). A poche centinaia di metri di distanza, a Montecitorio i leader degli odiati nemici, i tassisti, incontravano i deputati per convincerli che le cose stanno bene così come sono. È il pasticcio liberalizzazioni: gli 80 mila conducenti delle berline che si possono noleggiare (gli Ncc) e i 50 mila tassisti continueranno a farsi la guerra ancora a lungo.
Quell’articolo saltato all’ultimo minuto e le proroghe continue – Stavolta i taxi l’hanno scampata per un pelo. L’articolo che doveva far cadere le barriere che ostacolano le auto con conducente, e con loro Uber – l’applicazione californiana che permette di prenotarne una in cambio di una percentuale – è stato espulso all’ultimo dalla legge sulla concorrenza. Avrebbe fatto saltare l’obbligo per gli autisti di ritornare in rimessa prima di accettare una nuova prenotazione e il divieto di esercitare in Comuni diversi da quelli che hanno rilasciato l’autorizzazione. Nel 2008 l’allora sindaco di Roma Gianni Alemanno aveva inserito questi limiti di notte, nel decreto Milleproroghe, attraverso un emendamento confezionato dal compagno di partito Maurizio Gasparri: il prezzo per il voto dei tassisti alle Comunali pochi mesi prima. Il decreto ministeriale che doveva attuarlo, però, non è mai arrivato, e da allora si va avanti a proroghe. Secondo i tassisti è ancora in vigore, per gli Ncc no. La parola definitiva – a favore di questi ultimi – doveva arrivare con la legge approvata dal Consiglio dei ministri del 20 febbraio. Il lavoro era stato certosino, seguito passo passo lungo l’iter degli uffici legislativi. Poi riunioni tecniche, preconsiglio e approdo a Palazzo Chigi. Tutto garantito da un dialogo diretto con lo staff di Matteo Renzi. Nel testo arrivato a mezzogiorno sul tavolo dei ministri la norma c’era, in quello uscito fuori alle 17, no: su input del ministro dei Trasporti Maurizio Lupi il comma viene impallinato dall’opposizione di tutti i ministri Ncd. Chi ha seguito i lavori, però, segnala un altro dato: il premier non l’ha difesa. Renzi ha sempre elogiato la sharing economy – l’economia della condivisione – e lodato Uber (“l’ho usata, è straordinaria”), per questo il suo silenzio ha stupito non poco gli uomini della start up californiana guidata in Italia da Benedetta Arese Lucini.
I buoni propositi di Bersani e il compromesso pasticciato – In principio fu Pier Luigi Bersani, ministro dello Sviluppo tra 2006 e 2008. “Da allora molti mi guardano male, ma spesso c’è chi mi ferma: ‘Pier Luigi, son figlio tuo! Ho la licenza grazie a te’”, spiega sorridendo al Fatto: “Noi volevamo aiutarli: se metti troppe barricate alla fine è normale che arrivi uno come Uber a travolgerti”. Ai tempi del secondo governo Prodi, provò a far saltare il divieto di cumulo delle licenze, sul modello Usa. Successe il finimondo. Rimase solo la possibilità per i Comuni di emetterne di nuove. Nell’estate 2006, quella del grande sacco di piazza Santi Apostoli da parte dei padroncini infuriati contro le lenzuolate, ci provò Walter Veltroni a Roma: ne promise 2.500, ne arrivarono a scaglioni circa 1.950, gratis. La mediazione del sindaco di Roma archiviò il decreto prima ancora di farlo partire. Bersani aveva dato infatti ai Comuni la possibilità di vendere le licenze e assegnare il ricavato a chi già ne possedeva una, evitando così il crollo del valore. “Un meccanismo che avrebbe forse impedito di far esplodere il mercato della compravendita”, ammette un tassista che partecipò alle proteste. Sull’esempio di Roma, oggi i Comuni le assegnano gratis, con bandi a punteggio che premiano i sostituiti alla guida, spesso parenti dei padroncini.
Permessi cedesi online, astenersi perditempo – La lista di annunci è sterminata: “Vendo licenza, Milano: 170 mila euro”; “Roma, cedo tutto: 150 mila”; “Cremona, 80 mila senza auto”. Chi vende e chi compra si incontra online, o nelle bacheche delle associazioni di settore. “Si può discutere sul fatto che vendere una licenza ottenuta gratis sia anomalo – spiega Nicola Di Giacobbe, di Unica Taxi (Cgil) – ma è l’autista che le dà il valore, investendo tanti soldi, e offre un servizio pubblico, quindi regolato e con molti paletti. Per questo, e per il loro numero limitato, si genera il mercato”. E non si è mai fermato, anche se i prezzi sono scesi. “Mi creda, non sa quanto”, racconta Riccardo, 38 anni, da 12 tassista nella Capitale. Fino a qualche tempo fa a Roma una licenza si vendeva a 220-250 mila euro, stessa cifra a Milano, 350 mila a Firenze, fino ai 700 mila per i taxi di Venezia. Formalmente la legge vieta di vendere le licenze: si possono solo cedere pagando una tassa. Nella realtà sono ormai diventate un assegno al portatore. Dopo anni di elusione, si è mosso il Fisco. Oggi l’Agenzia delle Entrate tassa anche le compravendite, ipotizzando gli importi in base ai valori del mercato. “Si paga il 22 per cento. Molti, però, denunciano meno, magari vendono a 120 mila ma dichiarano 50 mila – continua Riccardo – Adesso però i controlli sono più accurati: diversi colleghi hanno pagato multa salate”. La domanda rispecchia i tempi di crisi: se la disoccupazione scende, il prezzo delle licenze sale, e viceversa. Questo spiega il calo attuale. Il mercato si aggira intorno ai due miliardi di euro, calcolato moltiplicando un reddito mensile lordo di circa 4 mila euro per le 50 mila licenze in circolazione, anche se secondo il Fisco, in media i tassisti denunciano guadagni per 15.600 euro lordi annui. “Quello più verosimile è di 29 mila euro”, ammette Di Giacobbe. Come è possibile? Il meccanismo è complesso, ma si spiega con una doppia imposizione. I tassisti sono soggetti agli studi di settore, con reddito prestabilito, quasi tutti, però, lavorano in cooperative di radiotaxi, che hanno una fiscalità agevolata. Sulla carta, quindi, sono soci dipendenti, con tanto di busta paga che in media si aggira intorno ai 13 mila euro lordi annui, spesso frutto di part time. “I turni però sono più lunghi, fino a 8 ore al giorno. A fine anno si dovrebbero denunciare entrambi i redditi, ma i furbi non lo fanno”, ammette un tassista chiedendo l’anonimato.
I furbi che dichiarano poco e l’effetto App – Nel 2004, dopo una campagna di controlli a tappeto, la finanza rivelò un’evasione fiscale nel 70 per cento dei controlli effettuati. Dal canto loro i tassisti denunciano un mercato crollato del 40 per cento e la concorrenza sleale di Uber, che non rispetta la legge e paga le tasse in Olanda. L’applicazione prende una commissione del 20 per cento sul prezzo del trasporto, ma spesso questo viene alzato dello stesso importo per non perdere nulla. “Il punto non è impedire alle auto a noleggio con conducente di lavorare – ammette Luca, 22 anni da tassista nella Capitale – ma che Uber si prenda la fascia di mercato più redditizia, lasciando il resto ai taxi, che sono obbligati ad accettare tutti perché sono servizio pubblico. Solo noi abbiamo le tariffe”. Che sono massimali, cioè si può solo far pagare di meno, “sebbene questa possibilità sia scarsamente applicata nella realtà”, si legge nella relazione annuale dell’Agenzia per la mobilità di Roma. Nessuno sa, ad esempio, che di sera le donne da sole o i clienti fuori dalle discoteche avrebbero diritto a uno sconto del 10 per cento, o che il sovrapprezzo di un euro, vale solo dal secondo bagaglio. Il car sharing nelle grandi città e il car pooling hanno ulteriormente ridotto la fascia di utenti. Stando ai dati, oggi in media una famiglia benestante spende solo 193 euro l’anno per il servizio taxi, mentre un pensionato 40.
La guerra dei prezzi: lo scontro su Expo – Nel tempo le tariffe sono cresciute, ma – sottolineano i tassisti – meno dell’inflazione. Secondo i padroncini delle auto bianche, la prova che liberalizzare il mercato non porta prezzi migliori è quanto accaduto a Dublino, dove i tassisti sono oltre 11 mila, ma una corsa costa in media più che a Roma (dove le licenze sono 7.661). Nella Capitale, però, le tariffe sono più alte che a Barcellona, Praga, New York, Madrid e Parigi. Stesso discorso per Milano, dove in vista di Expo è partito un braccio di ferro con il Comune che vuole imporre una tariffa forfettaria dal centro ai padiglioni dell’esposizione per evitare che i visitatori vengano spennati dai furbetti. “Non ci sono le corsie preferenziali. Di tariffe non si parla fino a dopo l’evento”, spiegano le sigle sindacali. Il rischio di truffe, però, è alto. In città, come in tutta Italia, le centraline fisse per chiamare un taxi non hanno mai funzionato davvero e si rischia il caos. Nel settore, la tecnologia è ancora agli albori. In alcuni Paesi, i taxi sono entrati in Uber, in Italia la categoria ha deciso di non farlo per non lasciare agli americani – un’azienda che vale 17 miliardi di dollari – una percentuale dei ricavi e il controllo del servizio. La concorrenza ha però spinto il settore ad evolversi. Oggi It Taxi, l’app lanciata a settembre dall’Unione radiotaxi italiana conta su 10 mila auto e 40 città coperte, con centomila download effettuati. Ma ha ancora molta strada da fare. Per ora si paga con Paypal (a breve – promette l’Uri, l’azienda accetterà anche il pagamento con carta) e non è possibile avere un preventivo certo della corsa, vero punto di forza della startup californiana. Uber poi è uguale in tutto il mondo, mentre It Taxi sta cercando di stringere accordi con le sigle europee per evitare ai turisti stranieri di dover scaricare l’applicazione una volta arrivati in Italia. Forse due anni di Uber stanno iniziando a dare i loro frutti. La battaglia, però, continuerà. Dopo averlo fatto saltare dal dl concorrenza, Lupi ha promesso agli Ncc che il tema verrà affrontato in un testo apposito. Nel frattempo i tassisti hanno trovato un gruppo di deputati disponibile a presentare un emendamento che renda stabili i divieti imposti a suo tempo da Alemanno. A Pasqua, l’Authority dei trasporti chiuderà la sua analisi, e potrebbe chiedere al governo di liberalizzare davvero il mercato. Finito l’Expo, ripartirà la guerra.
da Il Fatto Quotidiano del 4 marzo 2015