Cinema

I fratelli Taviani: “Fare cinema è una droga. La voglia non ci passa. Non chiamateci maestri”

In sala con il Maraviglioso Boccaccio i due artisti al Fatto Quotidiano parlano di Lucio Dalla, Pier Paolo Pasolini, Marcello Mastroianni e la loro passione per il Neorealismo. "Ogni volta che ragioniamo su un nostro film, pensiamo che stiamo per fare qualcosa che non abbiamo mai fatto prima e che nessuno farà dopo di noi"

di Malcom Pagani

Uno parla, l’altro tace. Uno tace, l’altro parla. Si danno la staffetta senza faticare e quando chiedono di considerare le singole risposte una sola cosa, si comprende anche il perché. Sintonia totale, simmetria perfetta, accordo assoluto: “Fin da ragazzi, quando prendendo il largo da Tirrenia, raggiungevamo Livorno in bicicletta per far recitare in teatro i portuali. La notte, attraversando la pineta, pareva di essere in Alaska”. Evocando Turgenev e Tolstoj in un palazzo della Roma umbertina, con il cappello di velluto in testa ma senza più inverni da cui proteggersi, Vittorio, il Taviani nato nel 1929, siede alla sinistra del fratello Paolo, quello del ’31, in un contesto in cui occhiali, giubbe, postura, epoche e differenze si confondono e l’anagrafe stinge di fronte alla vivacità: “Se qualcuno ci chiama maestri, ci arrabbiamo. Siamo stati comunisti, gente che si dava del tu salvo scoprire che a certe signore della borghesia, l’eccessiva confidenza garbava poco ‘ma che fa giovinetto? Mi dà del tu? Ma come si permette?’”. Dopo qualche rinvio – “A un film che prendesse spunto dal Boccaccio pensavamo da almeno trent’anni” – i Taviani hanno rotto gli indugi e girato il loro Maraviglioso omaggio alle novelle del ‘300. Cast eterogeneo (Scamarcio, Trinca, Puccini, Rossi Stuart, Cortellesi, Crescentini, Lello Arena), visione, sentimento, perduta bellezza a piene mani e trattazione, come sempre, molto personale: “Osservando le tante pesti che ammorbano il mondo di oggi, ci ha colto il desiderio di tornare a quella raccontata dal Boccaccio. Un ambito poco esplorato e mai rappresentato. La molla narrativa da cui discendeva tutto il resto”.

E siete partiti.
Il film si reggeva su tre pulsioni. Quella iniziale: la necessaria fuga dal morbo. La seconda: la spinta delle ragazze che persuadono gli uomini a cercare salvezza fuori dalla città. E la terza, la più importante, legata alla convinzione che le energie sprigionate dall’arte, a iniziare dall’amore, possano salvare davvero.

Voi da cosa siete stati salvati?
Dalla libertà di aver fatto il lavoro che avremmo voluto sempre fare. Ogni volta che ragioniamo su un nostro film, pensiamo che stiamo per fare qualcosa che non abbiamo mai fatto prima e che nessuno farà dopo di noi.

Se qualcuno individua una coerenza nella vostra poetica vi preoccupate?
Non esultiamo. Non vogliamo essere quelli che eravamo prima. Quelli che eravamo prima sono lì, nella memoria. Noi siamo andati oltre o almeno ci siamo illusi di farlo. Fosse altrimenti, un film non lo faremmo proprio.

Anche voi convinti che la coerenza sia la virtù degli imbecilli?
Non siamo convinti che sia una virtù, ma se dopo 20 film, qualcuno pensa che si tratti di 20 puntate di uno stesso discorso, è liberissimo di farlo. Se la coerenza c’è, non è cercata e non è voluta.

Dopo una collaborazione con Ivens e due film con Valentino Orsini, esordiste con I Sovversivi, 48 anni fa.
Volevamo rompere una lastra di ghiaccio e poi ferirci con i frammenti. Ne I Sovversivi abbiamo creduto molto.

Nel cast, in un ruolo importante, figurava Lucio Dalla.
In quel film c’era già il Dalla di domani. All’epoca facevamo molte pubblicità e Lucio lo avevamo incontrato proprio su un set di Carosello. Aveva magnetismo e un intuito da medium. Con l’assistente alla regia, senza sapere nulla di lui, andò a colpo sicuro: “A 14 anni ti sei operato al ginocchio, è vero?”. Era vero e quello impallidì.

Sul piano intellettuale cosa vi univa?
Prima di tutto il disaccordo. Nel giudicare un film, non eravamo mai dalla stessa parte della barricata. Sembra contraddittorio, ma in un microcosmo in cui tutti fingono di pensarla allo stesso modo, il diverso parere è una boccata d’aria fresca.

Altri punti di contatto?
L’amore per Miles Davis. All’epoca Lucio suonava solo il clarinetto e non cantava. Se lo faceva, si infilava nei semitoni e riusciva a conquistare il pubblico stravolgendo lo spartito. Con il movimento, con le smorfie, con la fisicità.

Con un po’ di trucco e con la mimica – diceva Dalla – puoi diventare un altro.
Scegliendolo per I sovversivi, l’avevamo pensato di lui. Gaetano Giuliani De Negri, il nostro produttore, non voleva saperne: “Siete matti? Già il film è difficile, poi voi scegliete un ragazzo sconosciuto, grasso e peloso, è un suicidio”. Allora provammo ad aggirarlo. Glielo facemmo incontrare. De Negri era un uomo straordinario, un comandante partigiano dalla personalità fortissima. Lucio lo sdraiò. Quando uscirono dalla stanza sembravano vecchi amici: “Allora, quando cominciamo?”.

Per qualche critico I Sovversivi ha la stessa importanza del quasi coevo I pugni in tasca di Bellocchio.
Non scherziamo. I pugni in tasca è un’opera fondamentale del ‘900. È come Roma città aperta per Rossellini. Un film in cui l’autore supera i propri limiti. È capitato anche a noi con Cesare deve morire. Girato in 20 giorni, eravamo convinti finisse per essere trasmesso alle 23 in televisione.

È stato un successo mondiale.
Si vede che siamo andati oltre i nostri limiti anche noi.

È vero che Dalla avrebbe dovuto partecipare anche al vostro Allonsanfan?
Verissimo. Avrebbe avuto il ruolo di Tito, poi interpretato da Bruno Cirino. Il primo giorno, interagendo con Mastroianni, Lucio sul set c’era. Poi, a causa di un’ulcera perforata, si sentì malissimo. Venne operato d’urgenza e dovette rinunciare. De Negri, alla malattia improvvisa di Dalla non credeva. Lucio era tremendo, sfuggente, andava di qua e di là. Eravamo ad Erba e De Negri sbraitava: “Mi sta truffando, mi sta turlupinando! Lo denuncio, vi giuro che lo denuncio”. Prese una macchina e corse all’ospedale per sbugiardarlo. Lo trovò ricoverato, si acquietò.

Come arrivaste a scegliere il protagonista?
A essere onesti, al principio a Marcello non avevamo neanche pensato. La nostra idea originaria era Volontè. Con Gian Maria avevamo già lavorato. Era un genio. E sapeva essere anche un genio malefico. Grandi entusiasmi sul progetto: “È stupendo, dove si firma?”, fughe improvvise e poi, magari ad anni di distanza, l’improntitudine di ribaltare la realtà come nessun altro: “Dovrei ancora avercela con voi per non avermi fatto fare Allonsanfan, ma vi perdono”.

E Mastroianni fu.
Per fare i film che volevamo, almeno fino a un certo punto della nostra vita, abbiamo sempre lottato duramente. Allonsanfan è tra quelli. Era bello, era bello, ma non si faceva mai. Marcello aiutò a realizzarlo. Ce lo fece incontrare un generoso Ferreri. Andammo a Parigi. Lui fu carino. “Ma sì, facciamo questo bel film wagneriano”. Diventammo di un altro colore, tutto avevamo in mente tranne che dare al lavoro un’impronta wagneriana. Non osammo contraddirlo. Partimmo pieni di entusiasmo e come al solito, ci presentammo sul set avendo fatto con gli attori una lettura poco più che sommaria del copione. “Il personaggio nasce nel suo ambiente, vediamo cosa succede”.

Cosa successe?
Marcello che noi adoravamo per resa espressiva e immediatezza, partì con un’idea precisa di recitazione. Dopo il primo ciak, atterriti, ci rendemmo conto che il tono era impostato. Sbagliato. Eravamo sotto un grande albero e durante la pausa cercavamo il coraggio necessario per spiegarglielo. Ci venne incontro: “Allora, come è andata?”. Balbettammo: “Bene, benissimo, proprio alla grande, ma ne faremo un’altra. Prova a dire le stesse battute come se fossi da Canova in Piazza del Popolo con un amico”. Marcello che era intuitivo, capì immediatamente. Da quel giorno, ogni volta che gli pareva di esagerare con il melodramma, si correggeva da solo. Durante le riprese, gridava: “Piazza del popolo, Piazza del Popolo”. Ci fermavamo, ridevamo, ricominciavamo.

Vi siete divertiti molto?
Moltissimo. Nelle difficoltà ci esaltavamo. Per La notte di San Lorenzo, ci trovammo all’improvviso senza la coproduzione tedesca. De Negri venne da noi sconsolato: “Chiediamo scusa a tutti e sbaracchiamo, il film non si fa”. Lo guardammo torvi: “Il film si fa con quel che c’è, chi decide di collaborare comunque, deve essere conscio della situazione e al limite, ringraziarci. Non vogliamo favori da nessuno”.

La presunzione dei maestri?
Nient’affatto. La consapevolezza che ogni avventura, al di là del dato economico, è un investimento su se stessi. C’era la diaria. Il cinema. Il piacere profondo di creare qualcosa insieme. A quel film, come fotografo di scena, partecipò anche un giovane Antonio Monda.

Il nuovo direttore artistico del Festival di Roma?
Proprio lui. Avevamo conosciuto la madre. Ci si presentò entusiasta: “Vorrei lavorare con voi”. Fummo chiari: “Questo è il nostro telefono. Hai il diritto di chiamarci e noi quello di non risponderti”. Viste le ristrettezze, la produzione era stata secca: “Niente fotografo di scena, si prendono i fotogrammi del film e si stampano”. Monda telefonò, noi proponemmo l’accordo che potevamo offrirgli: “Vieni gratis, c’è vitto, alloggio e una piccola diaria di sopravvivenza minima”. Accettò. Non crediamo se ne sia pentito.

Un’idea egualitaria.
In famiglia eravamo borghesi e mazziniani. Nostro padre era antifascista. L’incontro che ci cambiò l’esistenza fu quello con Valentino Orsini. Operaio e intellettuale, Orsini ci fece conoscere il teatro di massa.

In cosa consisteva?
Si mettevano in scena gli eventi della quotidianità con i personaggi reali, nei loro veri ruoli. Uomini e donne che si sacrificavano senza compenso, per mostrare al pubblico le fatiche della vita. A Livorno, a stretto contatto con i portuali, conoscemmo un ragazzo dalla pelle di porcellana. Aveva il viso slavato e bianchissimo. Gli chiedemmo ragioni e lui spiegò: “Pulisco il fondo delle navi, sono immerso nell’acqua da mattina a sera, dai e dai, ha preso un altro aspetto anche la faccia”. Faceva teatro per riscattare la sua condizione. A quel tempo, anche se sostenerlo oggi suona retorico, si credeva davvero nella testimonianza e nell’idea che il mondo potesse cambiare.

Era un teatro neorealista?
Eravamo fissati con il Neorealismo. Con la lezione di De Sica e dei suoi tanti figli. Dicevamo: “Se non ci fanno fare il cinema che vogliamo, proviamo con questo ibridone”. Da Brecht al comizio, nel teatro di massa nuotavano molti elementi.

Con il Pci avevate rapporti stretti?
La tessera la prendemmo proprio dopo l’esperienza livornese. Ci abbracciammo con i portuali e glielo promettemmo. A quel tempo, che si fosse iscritti o meno, era prassi mostrare al Partito il frutto del proprio lavoro. Accadde anche a noi, non sempre lietamente.

Nel Partito eravate considerati dei rompicoglioni?
Il Partito non ci ha mai dato una mano. L’Unità ci stroncava regolarmente. E anche Antonello Trombadori, un uomo colto e molto appassionato che pure amava il cinema, ci preferiva Fellini e Pasolini. L’atteggiamento complessivo era di malcelato fastidio: “Che volete dirci, voialtri, con il vostro tratto eretico?”.

Qualche problema lo incontraste dopo la proiezione di Un uomo da bruciare.
La storia era quella, notissima, di Salvatore Carnevale, sindacalista ucciso dalla Mafia. Lo facemmo interpretare a Volontè concedendoci notevoli libertà. Alla proiezione con lo Stato maggiore del Pci, mancava solo Togliatti. Le luci si accesero sui titoli di coda. Trombadori applaudì. Intorno, il gelo. Mentre l’applauso divenne impercettibile fino a sparire, si sentì distintamente la voce di Alicata, il direttore dell’Unità. Insorse: “Vergognatevi, avete infangato la memoria di un uomo specchiato”. C’era la linea del Partito e dalla linea non si derogava. Noi volevamo fare i nostri film e non ci sentivamo obbligati a condividerla.

 Quali erano i vostri rapporti con Pasolini?
Pieni di coincidenze, fin dall’epoca de I Sovversivi, quando ci trovammo a riprendere il funerale di Togliatti proprio come lui. Ci invitava alle proiezioni dei suoi film, un crinale sottilissimo e un rischio enorme, tra colleghi.

Perché?
Perché da noi ci si attende sempre un commentino sapido e a volte proprio non ti viene. Per tacere del fatto che alla frase da dire al collega, devi cominciare a pensare prima della fine del film, quando l’emozione è al suo acme. Il “Come vi è parso?” è sempre una parentesi imbarazzante . Una volta eravamo con Dalla, in una casa sulle pendici dell’Etna. Lucio cantò tre canzoni del suo nuovo disco. Serviva tempo per capire. Apprezzavi pienamente al terzo ascolto, ma lui si aspettava una reazione immediata. Andammo nel panico: “Che cazzo gli diciamo adesso? Che ci inventiamo?”.

Vi accadde anche con Pasolini?
Quella volta fummo sinceri e mal ce ne incolse. Eravamo andati a vedere il suo Decameron al Safa Palatino: “La prima metà ci ha estasiati, al resto dobbiamo ripensare”. Non l’avessimo mai detto. I registi, noi compresi, sono creature strane. Attaccate alle loro immagini, a quel che hanno voluto raccontare. Pier Paolo si irrigidì: “Ora voi mi dite in quale inquadratura avete perso il contatto con il film. Se ci dovete ripensare, una cosa grave, trovo, pretendo almeno di sapere come e perché”. Lo stessa cosa, su un altro piano e per altre ragioni, ci accadde in America. Pressman, il produttore, ci aveva condotti al cospetto di John Huston, già vecchio e molto malato. Huston, accudito da un Jack Nicholson affettuosissimo, ci mostrò il suo ultimo bellissimo film, Gente di Dublino. Gli esprimemmo ammirazione e lui ci inchiodò: “Dove vi piace esattamente?”. Farfugliammo una risposta modesta.

Non capita mai a voi di chiedere un parere?
A volte. Se riceviamo risposte evasive e non ci guardano negli occhi, capiamo: “Non gli è piaciuto, è uno stronzo”. (Ridono).

I registi sono suscettibili?
Il nostro amico Tarkovskij diceva sempre che il regista che inquadra i cieli azzurri non dovrebbe fare il cinema. I nostri film sono pieni di cieli azzurri. Non gliel’abbiamo mai rimproverato. Come vede, quindi no. Non sono suscettibili. (Ridono)

Il cinema di Tarkovskij era spesso accostato a  quello di Angelopoulos.
Grande cinema europeo, lo stesso che evocammo nell’incontro con Howard Hawks in America. Eravamo a cena con Gloria Swanson e con lui. “Ma lei sa quanto è amato in Europa?” ci entusiasmammo. Lui minimizzò. Insistemmo e mise il dito sulla bocca: “Shhh, se mi sentono gli americani non mi fanno più lavorare”. Di Angelopoulos, che stimavamo molto e che aveva un metodo di lavoro estremamente rigoroso, ci riportava descrizioni omeriche, un grande attore come Antonutti. Era stato scelto come protagonista per Megalexandros. Arrivò sul set con spirito di fratellanza: “Che bello , vi vedo così uniti, siamo una famiglia”. Gli risposero interlocutori: “Noi siamo una famiglia, tu ancora no”. Per forgiarne lo spirito, lo misero in una casetta su un monte. Aspettò a lungo di essere convocato e quando si rivide, non si riconobbe: “Nel film non ci sono, c’è solo un elmo”.

Con Alessandro il grande, Angelopoulos vinse a Venezia nel 1980. Voi avevate trionfato a Cannes tre anni prima con Padre Padrone, visto da un miliardo e mezzo di persone. Vi cambiò la vita?
Ci inondarono di proposte. Figlio figlione, mamma mammona, gli Sforza, i Borgia. Storie a tema fisso. Remake mascherati. Scappammo. Quando ci venne in mente un’idea, andammo a trovare Toscan du Plantier della Gaumont. Impatto principesco. Aerei lussuosi. Alberghi da sogno. Si aprì la porta dell’ufficio e Toscan andò al punto: “Voglio fare il vostro film, so che siete abituati a girare in economia e sarete contenti perché vi metto a disposizione una miseria”. Quando morì Rossellini, du Plantier, che era un suo grande amico, ci venne a salutare: “Stavo producendo l’ultimo film di Roberto su Marx, perché non lo girate voi?”. Leggemmo la sceneggiatura che Rossellini stesso, illustrandoci la prima scena, ci aveva già raccontato a Cannes. Era didascalica, molto televisiva e pur bella in alcuni passaggi, restava lontana da quello che avremmo potuto immaginare noi. Con Tuscan rilanciammo: “Dividiamo il copione in 5 parti e affidiamole a qualche rosselliniano di sicuro conio come Godard o Bertolucci. Magari ne viene fuori un guazzabuglio, ma pensiamo possa uscirne anche un fantastico casino”. Tuscan si eccitò: “Bello, bello, bello”. Poi sparì. Chiamammo, ma in stanza non c’era mai. Quando uno in stanza non c’è mai, nel cinema, ha un solo significato.

Il mezzo secolo di cinema alle spalle invece che significato riveste?
I nostri lavori, film dopo film, raccontano la nostra vita. I viaggi, i ritorni, le pause, le cose, la cause o le persone con cui abbiamo lottato o a cui abbiamo voluto bene. Certi riconoscimenti, certe parole a latitudini diversissime, ci hanno riempito di gioia. Aveva ragione Jung, l’anima collettiva esiste. Le raccontiamo una cosa che non abbiamo mai detto a nessuno.

Dite pure.
Quando siamo andati a Madrid per presentare Cesare deve morire, ci si è avvicinato un signore sulla sessantina: “Vengo da Leon, negli anni del franchismo voi eravate un punto di riferimento. Il parroco ci dava una sala per le proiezioni, ma siccome eravamo di sinistra, per ripicca, spegneva le stufe. San Michele aveva un gallo lo vedemmo sepolti dalle coperte, con il naso gelato. Da allora, quel film divenne il simbolo di qualcos’altro. Serviva a definire un’identità. Intonare la canzone era un manifesto di antifranchismo. Andavamo sotto la finestra della caserma in 15 e la cantavamo a squarciagola prima di scappare. Ci commosse. Abbiamo vissuto a lungo, ma se non avessimo girato film, storie come queste non le avremmo conosciute. Fare cinema è una   droga. La voglia non ci passa. Più sostengono che prima o poi evaporerà, più guardiamo dall’altra parte e respiriamo altrove”.

Dal Fatto Quotidiano dell’8 marzo 2015

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