È primavera, gli uccellini cinguettano, i prati sono in fiore e si riparla della riforma della Rai. Sentire, per la millesima volta “fuori i partiti” (detto dagli uomini dei partiti), può causare gravi forme di orticaria.

Mentre l’ideona di nominare al vertice dell’azienda un manager scelto dal governo a garanzia d’indipendenza è come (parafrasando Benigni) far presiedere al mostro di Firenze l’ente protezione della giovane. Immutabile invece l’assoluta indifferenza che i finti riformatori mostrano nei confronti dei tanti che, in Rai, prestano il proprio lavoro (in strutture spesso fatiscenti) sottopagati e in condizioni di precarietà.

Quelli, soprattutto, che assicurano i contenuti (autori) e la messa in onda: operatori, scenografi, montatori, registi, maestranze che danno qualità al servizio pubblico radiotelevisivo che mediamente non ha nulla da invidiare alla celebrata Bbc. Certo, poi ci sono i tg eternamente inzeppati di inutili dichiarazioni di altrettanto inutili politici: ma è proprio ciò che le cosiddette riforme non intendono cambiare. Mai che nei periodici giri di valzer Rai spacciati per “rivoluzioni” si spenda una parola per chi lavora dietro le quinte, migliaia di professionisti costretti a sottostare alla regola aurea della disincentivazione: più fai, meno guadagni.

Mentre resta inalterato il potere contrattuale degli “esterni”, spesso gestiti da lobby intoccabili. Davvero per cambiare le cose può bastare un amministratore delegato al posto di un direttore generale?

il Fatto Quotidiano, 10 marzo 2015

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