L'atto negoziale sottoscritto dal ministero e dall'Acri punta a evitare il ripetersi di derive patologiche come quelle di Mps e Carige. Le fondazioni si impegnano a non concentrare più di un terzo dell’attivo patrimoniale in un'unica banca, non indebitarsi se non per "temporanee e limitate esigenze di liquidità" e non usare derivati se non per coprirsi da rischi
Dopo mesi di indiscrezioni, il ministero delle Finanze guidato da Pier Carlo Padoan ha reso pubblico il protocollo sulla riforma della gestione finanziaria e del governo societario delle fondazioni bancarie. L’atto negoziale sottoscritto dal Tesoro con la stessa lobby delle fondazioni, l’Acri presieduta da Giuseppe Guzzetti, fissa una serie di paletti con l’obiettivo di evitare che, in futuro, i legami tra gli enti pubblico-privati nati nel 1990 con la legge Amato-Carli e le banche partecipate prendano una deriva patologica come avvenuto a Siena con il “groviglio armonioso” del Monte dei Paschi e a Genova con Carige e la Fondazione omonima. Una riforma in questo senso era attesa da quasi 20 anni, considerato che già il decreto attuativo della legge istitutiva delle fondazioni prevedeva l’obbligo di “diversificare il rischio di investimento del patrimonio” e impiegarlo “in modo da ottenere un’adeguata redditività“. Principi rimasti lettera morta, visto che tempi e modi della diversificazione non sono mai stati dettagliati.
Ora il protocollo, che a differenza delle banche popolari le fondazioni hanno avuto il privilegio di concordare nei dettagli con il governo, definisce in modo analitico parametri di riferimento “cui le fondazioni si impegnano a conformare i propri comportamenti”. Per prima cosa si stabilisce un limite “di un terzo dell’attivo patrimoniale per l’esposizione nei confronti di un singolo soggetto”. Vale a dire che un ente non potrà più concentrare una grossa fetta di capitale in una singola banca con il rischio di perdere tutto se l’istituto entra in crisi, come accaduto appunto a Fondazione Mps e Carige. La Compagnia di San Paolo, per esempio, dovrà ridurre la propria quota in Intesa Sanpaolo, che ora è del 10%.
Con la stessa finalità, il documento prevede che vada evitata “qualunque forma di indebitamento salvo il caso di temporanee e limitate esigenze di liquidità“. In terzo luogo, le fondazioni non dovranno più – lo scandalo di Siena forse ha insegnato qualcosa – “usare contratti e strumenti finanziari derivati salvo che per finalità di copertura o operazioni in cui non siano presenti rischi di perdite patrimoniali”.
Per quanto riguarda il governo societario, le fondazioni si impegnano, tra l’altro, ad “applicare criteri stringenti per la definizione dei corrispettivi economici dei componenti i propri organi, coerenti con la natura di enti senza scopo di lucro e comunque commisurati all’entità del patrimonio e delle erogazioni“. Erogazioni che, va ricordato, sarebbero il “core business” di questi enti ma negli anni della crisi si sono notevolmente assottigliate o sono state indirizzate verso settori non sempre propriamente “di interesse pubblico“. In particolare, il compenso del presidente delle fondazioni con patrimonio superiore a un miliardo di euro non potrà superare i 240mila. E per gli stipendi dei consiglieri sono previsti ulteriori tetti.
Sarà poi necessario “definire limiti alla permanenza in carica dei membri degli organi, assicurando il periodico ricambio degli stessi, così mantenendo un elevato grado di responsabilità nei confronti del territorio”, “adottare procedure di nomina dirette ad assicurare la presenza del genere meno rappresentato e valorizzare il possesso di competenze specialistiche che garantiscano adeguati livelli di professionalità dei componenti degli organi”. Non solo: le fondazioni si impegnano a “osservare regole di incompatibilità al fine di assicurare il libero ed indipendente svolgimento delle funzioni degli organi” e “conformare l’attività ad un ampio principio di trasparenza, declinato in regole puntuali che assicurino adeguata diffusione delle principali decisioni alla collettività di riferimento”.