Il Parma è finalmente tornato a giocare, dopo due giornate in cui le sue partite erano state rinviate. Una buona notizia, che però non risolve la crisi finanziaria del club e che lascia inalterati i dubbi sulle sue prospettive future. Molte sono le domande poste in questi giorni. Come è stato possibile accumulare perdite così elevate senza che nessuno se ne accorgesse? Come è stato possibile che il club sia stato venduto due volte in poche settimane a investitori palesemente non in grado di risanare la società? Forse conviene però partire da un’altra domanda: perché oggi qualcuno dovrebbe investire risorse nel Parma o in altro club italiano? Ci sono due possibili ragioni. La prima è fare soldi. È la ragione per la quale James Pallotta ha acquistato la Roma e Erik Thohir l’Inter.
Non sappiamo se riusciranno oppure no, ma quella è la loro intenzione. Lo stesso discorso vale per gli azionisti del Manchester United, del Liverpool e di altre squadre inglesi. Per fare profitti occorre avere un piano industriale che passa quasi inevitabilmente da uno stadio di proprietà, al fine di aumentare i ricavi, e da una gestione oculata del marchio e del merchandising. I club italiani su questo sono molto indietro rispetto a quelli inglesi e tedeschi e si affidano invece in larghissima parte ai ricavi generati dai diritti televisivi. Occorre anche ridurre i costi, specialmente quelli dei calciatori, e ciò significa comprare giocatori giovani o sottovalutati, talenti che giocano in campionati meno conosciuti. Presumibilmente il numero di stranieri crescerà, a scapito della performance della Nazionale.
L’altra ragione è la visibilità mediatica, con i vantaggi che essa porta. Questo era il modello che prevaleva in Italia in passato. Negli anni Settanta, però, gestire una società calcistica non era troppo complesso. Le società erano proprietarie dei cartellini dei giocatori e quindi pagavano stipendi relativamente bassi. Giampiero Boniperti gestiva tutti i contratti della Juventus in un pomeriggio a Villar Perosa. Mino Raiola, il re dei procuratori, non avrebbe avuto un futuro radioso in quel mondo. I calciatori dovevano aprire un’attività a fine carriera perché i soldi non sarebbero bastati per garantire un alto tenore di vita fino alla vecchiaia, tranne poche eccezioni. Certo, le società avevano anche ricavi molto più bassi dalle tv (anzi, dalla Rai, che era l’unico possibile acquirente dei diritti televisivi) e non c’erano gli sponsor (anzi, era proibito averne). La situazione si è rovesciata da allora.
Le società hanno moltiplicato i ricavi grazie alla concorrenza tra le televisioni, ma anche i costi dei calciatori sono lievitati grazie al fatto che sono padroni di legarsi contrattualmente a chi vogliono. In questo nuovo contesto, il presidente ‘ricco scemo’ non esiste più o, se esiste, poi lascia una situazione economica complicata dietro di sé.
Nei campionati americani di basket, baseball o football (Nba, Mlb, Nfl) regna indiscusso il primo modello, quello basato sui profitti. Il numero di squadre è chiuso, non ci sono retrocessioni e per avere l’ingresso di un nuovo club occorre che ci sia un nuovo mercato e un piano industriale credibile. In questa ottica avrebbe ragione Claudio Lotito, il presidente della Lazio: Carpi, Frosinone e Latina non potrebbero stare in serie A senza indebolirla economicamente.
Questo modello ha vantaggi economici chiari, ma un evidente svantaggio: la mancanza di retrocessioni e promozioni toglie interesse a molte delle partite. Per fortuna non c’è alcun bisogno sradicare le nostre tradizioni. Nella Premier League gioca il piccolo Burnley senza che nessuno si lamenti. La ragione è che le squadre inglesi, per essere ammesse alle leghe professionistiche, devono avere stadi con certe caratteristiche, assicurare la sicurezza nello stadio e fare fronte in modo puntuale ai pagamenti. In altre parole, la gestione del club non può e non deve mettere in secondo piano l’aspetto economico rispetto a quello sportivo.
Questo è quello che manca in molte società italiane: la capacità di gestire i club in modo economicamente sostenibile. I diritti tv e le (spesso fittizie) plusvalenze hanno finora impedito che i nodi arrivassero al pettine. La crisi del Parma ci mostra che questo problema non è più eludibile.
Il futuro del Parma (e della serie A)
Possiamo sperare in un futuro per il Parma e, più in generale, per il calcio italiano? I problemi sono enormi. Stadi brutti e poco accoglienti, spesso in balia del tifo organizzato, che non invogliano i tifosi a pagare il biglietto e riducono il valore del prodotto televisivo. Il merchandising penalizzato dal proliferare di magliette e gadget contraffatti. La mancanza di capacità manageriali applicate allo sport. Una Lega senza alcun potere di controllo e una Federazione indebolita dalle troppe gaffe del suo presidente, Carlo Tavecchio. Un’ipertrofica serie A con venti squadre. Ci sono tuttavia anche piccoli segnali di speranza. Fiorentina, Napoli e Torino negli anni passati sono fallite e hanno dovuto ripartire dalle categorie inferiori. Oggi sono arrivate agli ottavi di Europa League. Hanno dovuto cedere i loro migliori talenti a club più ricchi, ma grazie a ciò possono avere un futuro, magari con qualche soddisfazione. Il Parma retrocederà e i suoi tifosi passeranno anni amari, ma tutti sappiamo che nello sport le delusioni sono inevitabili. Solo che, per fortuna, si scordano in fretta.
*Ha conseguito il PhD presso il Massachusetts Institute of Technology. Attualmente insegna Economia Politica presso l’Università Bocconi. In precedenza ha insegnato presso l’Università di Bologna, l’Università di Pavia, Lecturer all´University College London, Research Fellow presso IDEI (Toulouse ) e IGIER. Le sue aree di interesse scientifico sono la teoria dell’impresa, finanza d’impresa e teoria dei contratti. Redattore de lavoce.info.