Isis non è in guerra solo contro la Siria o l’Iraq, il suo nemico è l’identità storica e culturale di questi paesi e dell’occidente. Solo così si spiega la distruzione sistematica dei luoghi religiosi e il tentato genocidio delle minoranze cristiane, yazide e turcomanne. Isis non si limita a cancellare il patrimonio storico, lo usa anche come fonte di guadagno per finanziare la sua guerra. Il mercato nero di opere d’arte e dei reperti archeologici ha visto negli ultimi anni una crescita esponenziale. “Da quando è iniziata la guerra in Siria – dice Khalil, importante commerciante di antichità in Libano, che vuole restare anonimo – sono continuamente contattato da gruppi di scavatori clandestini assoldati dai jihadisti per recuperare e vendere oggetti antichi. Le cose sono un po’ cambiate negli ultimi mesi, credo che ora per loro sia più semplice far passare le opere dalla Turchia”.
Illegale, ma mondiale e in crescita il mercato nero delle opere d’arte
In questi mesi di costruzione dello Stato Islamico in Siria e in Iraq una delle fonti di entrata più rilevanti per le casse dell’organizzazione di al-Baghdadi è rappresentata dal contrabbando dei reperti archeologici. Un mercato che nel bilancio delle entrate del Califfato è preceduta solo dalla vendita del petrolio. Una conferma indiretta della crescita del mercato nero di reperti antichi arriva dagli Stati Uniti. Le importazioni americane di antichità provenienti dal Medio Oriente sono aumentate vertiginosamente tra il 2011 e il 2013. Secondo i dati forniti dalla US International Trade Commission in soli tre anni le importazioni da Egitto, Iraq, Libano, Siria e Turchia sono aumentate dell’86%, passando da un valore di 51,1 milioni di dollari a 95,1 milioni di dollari.
Non è possibile quantificare quanto il commercio di opere d’arte porti nelle casse dell’Isis, ma alcuni dati parziali riescono a dare un’idea delle dimensioni complessive del fenomeno. Il contrabbando dei soli reperti archeologici trafugati ad al-Nabuk, in Siria, ha fruttato ben 36 milioni di dollari. La cifra, secondo l’intelligence inglese, è attendibile e stimata al ribasso. Un gruppo di archeologi internazionali ha valutato che il valore dei reperti di cui è stato accertato il furto in questi tre anni può superare i 1.500 milioni di dollari sul mercato nero.
L’organizzazione di Isis per il saccheggio
Qais Hussain Rashid, direttore generale dei musei iracheni, ha raccontato: “Non si limitano a rubare, fanno dei danni incalcolabili alle nostre opere d’arte. Prendono solo le parti più preziose e facili da trasportare, dalle decorazioni staccano i rilievi e alle statue prendono solo la testa. Alcune tavolette in lingua assira, rubate dal Palazzo al-Kalhu del re assiro Ashurnasirpal II, di valore inestimabile sono state già ritrovate in Europa, purtroppo tagliate e vendute a pezzi”. Il modo in cui è realizzato il saccheggio sistematico del patrimonio testimonia quanto sia organizzato il cosiddetto Stato Islamico. Non sono i combattenti a occuparsi di scavi e commercio, ma concedono a chi vuole di razziare nei siti in cambio di una percentuale del valore monetario dei reperti. Si applica la Khums, una tassa prevista dalla legge islamica, per la quale si è obbligati a versare allo Stato una quota del valore dei beni provenienti dalla terra.
L’importo della Khums varia da regione a regione e a seconda dell’oggetto recuperato. Nella provincia di Aleppo è del 20%, a Raqqa il prelievo può arrivare fino al 50% o più, se i reperti sono del periodo islamico o in metalli preziosi come l’oro. Oltre al saccheggio Isis favorisce l’esportazione clandestina dei reperti archeologici, soprattutto attraverso il valico di confine tra Siria e Turchia di Tel Abyad, roccaforte dello Stato Islamico.
Il Califfato leader mondiale del traffico
I beni archeologici trafugati da Siria e Iraq sono commercializzati sul mercato nero grazie all’intermediazione di numerosi uomini d’affari, specializzati nella rivendita di questo immenso patrimonio a clienti europei, americani e arabi. Il giro d’affari complessivo è, per ora, valutato dall’Unesco (con analoga valutazione dei servizi segreti britannici) 250 milioni di dollari, i mediatori ottengono ricompense tra il 2% e il 5% di quanto contrabbandato. Il traffico di antichità a livello mondiale è stato stimato da Unesco e Interpol tra i 6 e gli 8 miliardi di dollari, una cifra in rapida crescita. Per quantificare sia approssimativamente la redditività del commercio, basti sapere che in base alle affermazioni di un intermediario intervistato dalla Bbc, la cui identità non è stata resa nota, un pezzo risalente a 8.500 anni prima di Cristo è stato venduto a 1,1 milioni di dollari. Un mercato finito per gran parte sotto il controllo dello Stato Islamico.
L’Occidente rimane sconvolto dalle immagini della distruzione delle Statue del Museo di Mosul e delle antiche città assire, vere o finte che siano. Sono molte, infatti, le voci di coloro che ritengono la distruzione plateale di quei reperti una mera copertura per mascherare la razzia di opere d’arte in corso. “Ci hanno mostrato la distruzione delle statue più grandi e delle antiche mura – dice Khalil – ma dove sono le tavolette cuneiformi, le monete e i sigilli? Oggetti di valore inestimabile, facilmente trasportabili e piazzabili sul mercato. Da qualche parte c’è un mondo di facoltosi collezionisti che guarda queste immagini come a un depliant, in vista dei prossimi acquisti deputati ad ampliare la loro collezione.”
Una barbarie peggiore di quella dei mongoli
Fermare questo commercio è indispensabile e non solo perché è una fonte di reddito per un’organizzazione terroristica. La distruzione sistematica del patrimonio storico mette in pericolo la possibilità di stabilizzazione e riconciliazione al termine del conflitto. In Siria e in Iraq le memorie storiche sono parte della vita quotidiana. Si vive nelle antiche città, si prega nelle chiese e nelle moschee storiche, si fa la spesa in suq (mercati) secolari. Quando la guerra finirà questo patrimonio sarà fondamentale per ritrovare unità attraverso l’identità storica comune.
Questa non è la prima volta che lo sconfinato patrimonio culturale della regione è minacciato. Il saccheggio peggiore fu durante la conquista mongola di Baghdad, nel 1258. “La tradizione racconta – dice Rashid – che allora il fiume Tigri si tinse di rosso per il sangue delle migliaia di morti e di nero per l’inchiostro delle migliaia di manoscritti. Eppure la barbarie dei mongoli impallidisce a confronto di quella dello Stato Islamico.”