Portano la firma di esponenti leghisti e socialisti. Ma ce n'è una anche del democratico Anzaldi che contraddice quella fatta trapelare dal premier. C'è chi è per l'azienda pubblica e chi per la privatizzazione. E c'è chi chiede di cambiare il canone
Le proposte arrivano da deputati e senatori. E tutte puntano a rivoluzionare viale Mazzini: sempre pubblica ma con la proprietà affidata ad una fondazione. O totalmente privata con pacchetti di programmi venduti all’asta. Con un canone modificato nella forma ma non nella sostanza. E già, la riforma targata Matteo Renzi, le cui linee guida sono state anticipate dal quotidiano la Repubblica, è solo l’ultima arrivata per “cambiare verso” alla Rai. Dal 2013, infatti, nei cassetti di Camera e Senato giacciono ben 8 proposte (mai discusse): sei per mutare la natura della governance e due per rimodulare la tassa di possesso, che nelle intenzioni del governo sarà dimezzata (da 113,5 a 65 euro) ma addebitata sulla bolletta dell’energia elettrica in modo che la paghino tutti. Il provvedimento di Renzi, che sarà presentato nel consiglio dei ministri di giovedì, ha come obiettivo quello di superare la legge Gasparri, varata nel 2004 dal governodi Silvio Berlusconi al termine di un duro braccio di ferro con l’allora presidente della Repubblica Carlo Azeglio Ciampi. Ma sta già provocando non pochi mal di pancia fra i partiti, a cominciare dal suo, il Partito democratico (Pd).
MATTEO, CHE CONFUSIONE Nelle file del Pd, infatti, il piano annunciato da Renzi ha sorpreso e non poco. Anche perche i capisaldi della riforma annunciata -con il sipario calato sul direttore generale; l’insediamento di un amministratore delegato di nomina governativa; la creazione di un consiglio di sorveglianza cui spetterebbe, in alternativa al Parlamento riunito in seduta comune, la nomina dei consiglieri d’amministrazione; il canone abbinato alla bolletta elettrica e pagato a prescindere dall’effettivo possesso di un apparecchio tv- sono sembrati lontanissimi da quelli elencati nel progetto stilato in un documento diffuso dallo stesso Renzi nel marzo 2015 dopo la convention nell’amata Leopolda. Cosa proponeva l’allora sindaco di Firenze? Cose del tutto differenti dall’attuali: “Oggi la Rai -recitava il documento- ha 15 canali, dei quali solo 8 hanno una valenza pubblica. Questi vanno finanziati esclusivamente attraverso il canone“. Quanto agli altri, a cominciare da Rai 1 e Rai 2 “devono essere da subito finanziati esclusivamente con la pubblicità, con affollamenti pari a quelli delle reti private, e successivamente privatizzati“. Sempre per quel che riguardava il canone, riformulato come “imposta sul possesso del televisore”, esso andava rivalutato “su standard europei e riscosso dall’Agenzia delle entrate”, mentre la governance impostata sul modello Bbc prevedeva un comitato strategico nominato dal presidente della Repubblica “che nomina i membri del comitato esecutivo, composto da manager, e l’amministratore delegato”. Insomma, tutta un’altra musica.
ANZALDI ALLA RISCOSSA Musica diversa anche da quella suonata nello spartito delineato dalla proposta di riforma depositata in Parlamento non più tardi di due mesi fa, il 25 gennaio, da un altro autorevole esponente dem, Michele Anzaldi, dal Pd insediato come segretario della commissione parlamentare di vigilanza sulla Rai. Ansaldi propone di affidare ad una fondazione, “per concessione” e per un massimo di 12 anni, la proprietà e la scelta delle strategie e dei vertici della Rai. L’organismo, che avrebbe il compito di “riorganizzare” l’azienda assicurando la gestione efficiente di tutte le società controllate, verrebbe dotato di un consiglio di amministrazione composto da 11 membri che rimarrebbe in carica per un massimo di sei anni. Quattro componenti sarebbero nominati dalla commissione parlamentare di vigilanza (che per Renzi resterebbe solo come organo di controllo) a maggioranza dei due terzi, uno dalla conferenza Stato-Regioni, uno dall’Associazione dei comuni italiani (Anci). Altri quattro, rispettivamente, da Consiglio nazionale dell’economia e del lavoro (Cnel), Cncu (il consiglio dei consumatori), accademia dei Lincei e Conferenza dei rettori delle università italiane (Crui). Più uno dai dipendenti della Rai a scrutinio segreto. A questo punto sarebbe la fondazione a nominare il presidente e i consiglieri della Rai (5 in tutto per un massimo di tre anni) che sceglierebbero, loro e non il governo, l’amministratore delegato. Sulla stessa lunghezza d’onda viaggia la proposta depositata a Palazzo Madama da Enrico Buemi e Fausto Longo. Anche i due senatori socialisti immaginano la creazione di una “Fondazione Rai indipendente da ogni indirizzo politico” controllata però contabilmente dalla Corte dei Conti, i cui organi sono l’assemblea, il consiglio di sorveglianza e quello di gestione. Tutte le cariche in questione sono “a titolo gratuito”, è scritto nel disegno di legge che assegna alla stessa fondazione pure il compito di nominare il Cda.
LEGA IN CAMPO Dai socialisti ai seguaci del Carroccio. La Lega Nord ha tre proposte: due per la privatizzazione totale della Rai e l’altra che, al contrario, conserva la partecipazione pubblica al 51%. A marzo 2013 il deputato Davide Caparini ha firmato, insieme a 13 colleghi, un disegno di legge riproposto nella stessa versione dal senatore Giacomo Stucchi tre mesi dopo. Secondo questo testo, lo Stato dovrebbe definire entro 20 mesi la cessione di tutti i rami d’azienda. Così il servizio pubblico non sarebbe più rappresentato da un’emittente ma resterebbe sotto forma di prodotti radiotelevisivi, forniti da privati e suddivisi per genere: informazione e approfondimento, eventi sportivi, fiction e serie televisive, rubriche di servizio e programmi per minori. Per ogni pacchetto è prevista una gara di assegnazione triennale con una base di prezzo decisa dalla Consip, la centrale acquisti della pubblica amministrazione. Nel caso in cui un prodotto restasse invenduto – scrivono Caparini e gli altri – il ministero dello Sviluppo economico dovrebbe provvedere all’assegnazione “a tutte le emittenti private nazionali” e solo “tramite apposite convenzioni”.
LARGO AI PRIVATI Tutto a posto? Macché. Proprio in questi giorni e a poche ore dal Consiglio dei ministri che dovrebbe esaminare il piano Rai di Renzi, però, il Carroccio ha redatto un altro disegno di legge che innesta la retromarcia rispetto alla privatizzazione totale. Chi lo ha scritto? Sempre Caparini, stavolta in collaborazione col senatore Jonny Crosio. Nel nuovo testo, la presenza dei privati non può superare il 49%: la partecipazione statale resta così maggioritaria. Il Carroccio rivede inoltre l’intero impianto dell’altra riforma presentata. Il Cda dovrebbe essere composto da 7 rappresentanti, così suddivisi: “un esponente degli enti locali, tre rappresentanti delle commissioni di trasporto e cultura di Camera e Senato, un dipendente Rai, un delegato delle associazioni di consumatori e uno dell’Agcom”. Il progetto prevede inoltre che l’amministratore delegato sia indicato dai consiglieri e abbia il compito di attuare la linea editoriale. A completare il quadro c’è “l’addio alla commissione di vigilanza” con le mansioni di controllo conferite all’Autorità per le garanzie nelle comunicazioni (Agcom).
RIFORMA A 5 STELLE Poi c’è la proposta del Movimento 5 Stelle (M5S), annunciata la scorsa settimana. Come da ogni parte si chiede, il disegno di legge dei “grillini” – a firma del presidente della commissione di Vigilanza Roberto Fico – punta a garantire l’indipendenza del servizio pubblico dalla politica. Per evitare che viale Mazzini diventi un parcheggio per politici e trombati, il testo stabilisce infatti che “non possono essere candidati alla carica di consigliere i soggetti che nei sette anni precedenti alla nomina abbiano ricoperto cariche di governo o cariche politiche elettive a qualunque livello, ovvero incarichi o uffici di rappresentanza nei partiti politici”. Così, dopo aver definito una rosa di papabili, si procede a un sorteggio. Al termine dell’operazione di nomina, il M5S vorrebbe affidare maggiori poteri al Cda, composto da “cinque membri, compresi il presidente e l’amministratore delegato (il primo nominato dal ministero dell’Economia, il secondo dal cda), che durano in carica per cinque anni, non rinnovabili”. Oltre ai compiti di gestione, il disegno di legge prevede che il consiglio dia anche “l’indirizzo strategico della società in relazione allo sviluppo e alla commercializzazione del prodotto audiovisivo”. Altro punto cruciale della proposta del movimento è la riforma dell’Agcom a partire dall’elezione dei suoi componenti, che dovrà avvenire con la maggioranza dei due terzi in Parlamento e nelle commissioni competenti. Infine, Fico auspica l’abolizione della commissione di Vigilanza e il conseguente trasferimento delle funzioni di controllo proprio all’Agcom.
COLPI DI CANONE C’è poi il capitolo canone. Fra le proposte chiuse nei cassetti parlamentari si trova quella di Mario Marazziti (Per l’Italia) che ne chiede addirittura l’abolizione. Almeno a parole. Nel suo disegno di legge il deputato centrista immagina infatti l’istituzione di un “contributo per la pubblica editoria a copertura dei costi relativi a tutti i servizi pubblici radiofonici, televisivi e telematici”. A conti fatti, quindi, nulla cambierà, visto che l’imposta sarà ripartita su “ogni nucleo famigliare”, eccezion fatta per chi vive con soggetti affetti da disabilità visive o uditive. E i costi sono a salire: i 90 euro di partenza, infatti, diventano 135 per i redditi superiori ai 240 mila euro annui e 180 per quelli oltre il milione. In un unico articolo, invece, il deputato del Pd Guglielmo Vaccaro propone l’esenzione del pagamento della tassa per “i soggetti affetti da sordità congenita o acquisita durante l’età evolutiva, tale da compromettere il normale apprendimento del linguaggio parlato”. In caso di falsa dichiarazione, la proposta prevede sanzioni pecuniarie che oscillano fra i mille e i tremila euro per ogni annualità evasa in aggiunta al canone dovuto e agli interessi di mora. Il canone non scompare nemmeno nella proposta Anzaldi. Che, di ammontare non precisato, ogni due anni subirà adeguamenti tenendo conto del tasso di inflazione.
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