Dalla crisi economica all'omicidio dell'oppositore, passando per un possibile ruolo nella crisi libica e la passione che il presidente suscita in Occidente sia tra le file dell'estrema sinistra che nella destra più nera. Giulietto Chiesa e Leonardo Coen, storici corrispondenti da Mosca per L'Unità e La Repubblica, si confrontano da due opposte prospettive sul momento che la Russia sta vivendo e sulle sfide che è chiamata ad affrontare
Una Russia sotto attacco e travolta da una crisi economica causata dall’Occidente, secondo l’uno. Un Vladimir Putin accerchiato, responsabile delle difficoltà che attanagliano il Paese perché incapace di gestire al meglio le infinite risorse che amministra, secondo l’altro. Un presidente capace di aumentare la propria popolarità ribaltando il tentativo di Usa e Ue di metterlo in ginocchio, secondo il primo. Uno zar che tenta di nascondere le difficoltà interne mettendo il bavaglio ai media e risvegliando la mitologia della “nazione sotto attacco”, per il secondo. Ancora: il primo che sferza i commentatori occidentali che sollevano lo spettro di presunti complotti nazionalisti per spiegare l’omicidio di Boris Nemtsov; il secondo che cita Stalin: “Non c’è persona, non c’è problema”. Giulietto Chiesa e Leonardo Coen, storici corrispondenti da Mosca, si confrontano per IlFattoQuotidiano.it da due opposte prospettive sulle molteplici sfide che la Russia di Putin è chiamata ad affrontare, dalle conseguenze della crisi ucraina fino al possibile intervento della Russia nella crisi libica.
CRISI ECONOMICA INTERNA
Giulietto Chiesa – Gli Stati Uniti hanno lanciato un’offensiva contro la Russia che modifica radicalmente il quadro post 1989 e non solo quello postbellico. Ciascuno dia l’interpretazione che vuole di questa scelta (non è qui il luogo per affrontarla), ma resta il fatto. La crisi economica russa è il risultato di quest’offensiva. L’uso dell’Ucraina come bastone ferrato, più le sanzioni, più l’abbassamento “politico” del prezzo del petrolio, più il blocco del Southstream è l’ingiunzione all’Europa di sostituire il gas russo con quello (molto aleatorio) americano: tutto questo ha colpito, e duramente, l’economia russa. Frenare la caduta del rublo è costato molto. La Duma e tutto il vertice politico, per dare l’esempio, ha dovuto ridursi gli stipendi, Putin e Medvedev inclusi. La Russia è stata colpita nei punti fragili, che derivano dalla sua integrazione nel mercato mondiale. In sintesi: presentare la Russia come “aggressore” è una falsa interpretazione. Su tutti questi fronti la Russia ha subito un’aggressione e si sta difendendo. L’Occidente non si rende conto che la Russia “non può arretrare”, perché ha già le spalle al muro. E da un avversario – un forte avversario – che è stato chiuso in angolo ci si deve aspettare una reazione dura. Vedi la Crimea.
Leonardo Coen – Rublo dimezzato. Crollo del petrolio. Ucraina, ossia sanzioni che cominciano a lasciare il segno. Fuga di capitali. Corruzione devastante. Le imposte sulle esportazioni di gas e petrolio rappresentano oltre la metà del bilancio statale: se si abbassa il prezzo del barile, si riduce di conseguenza la spesa pubblica e ciò nuoce sul tasso di crescita del reddito. Per anni, il corso favorevole del greggio ha permesso di saldare i debiti, l’accumulo di riserve ha difeso il rublo e favorito gli investimenti. Durante i primi due mandati presidenziali, Putin ha goduto di queste favorevoli congiunzioni, garantendo stabilità e benessere, col mercato interno in costante espansione e col Pil che è cresciuto in media oltre il 6 per cento l’anno sino al 2009: così si è smarcato dalla dipendenza finanziaria straniera. Ma la pacchia è finita. Le minori entrate fiscali comportano grossi sacrifici. La classe media, più del 20% della popolazione, pretende il passaggio da un’economia sostenuta prevalentemente dallo sfruttamento delle fonti energetiche ad un modello più diversificato: la crisi è dunque anche politica, dimostra il fallimento dell’amministrazione Putin. Il Cremlino dovrà ridefinire molti obiettivi, a cominciare dalle spese militari: la guerra in Ucraina costa, e mostrare i muscoli all’Occidente anche di più. Il premier Dmitri Medvedev ha già dovuto tagliare parecchio, per mantenere il bilancio in pareggio (per fortuna non ci sono debiti). Un grosso problema è rappresentato dal pagamento delle pensioni e soprattutto dal mantenimento del carrozzone pubblico, 18 milioni di dipendenti, cioè tra il 25 e il 30% della popolazione attiva e ormai metà dei salari se ne vanno per la spesa alimentare (ufficialmente l’inflazione ora è al 16%).
GESTIONE DEL DISSENSO E OMICIDIO NEMTSOV
Giulietto Chiesa – Washington ha scommesso su una presuntuosa certezza: mettere in ginocchio la Russia, e Putin (ormai degradato a dittatore con cui si possono usare perfino toni aggressivi e volgari). I calcoli di russologi americani (e dei loro seguaci europei) prevedono che, con due, tre anni di questa “cura”, Putin sarà rovesciato e sostituito da una nuova leadership almeno tanto succube agl’interessi dell’Occidente quanto lo fu il Quisling Boris Eltsin. Qui l’errore mi sembra evidente. Fino a questo momento il “rinculo” ha prodotto l’effetto contrario. Putin ha aumentato la sua popolarità. Chiunque conosca un po’ la situazione da vicino, non da Washington o da Bruxelles, sa che la vicenda ucraina ha prodotto in Russia una “rivolta nazionale” anti americana e anti occidentale che non ha precedenti nel secondo dopoguerra. In una parola, dopo 20 anni di colonizzazione occidentale, è riapparso lo “spirito russo”. A chi, in occidente, scuote con sufficienza la testa o le spalle, incredulo o sarcastico, suggerisco la lettura di Arnold Toynbee (“Il Mondo e l’Occidente”). La russofobia è una malattia, che produce tre tossine molto pericolose: odio e presunzione, da un lato, e forti dosi di irrealismo. Qui in Occidente viviamo immersi in questi miasmi. Sospetto che, alla lunga, non ci gioveranno. Il dissenso – quello che esiste in questo momento in Russia – non ha nessuna possibilità di dare vita a una “rivoluzione colorata di massa” come quelle, ormai ben note, di Belgrado, di Tbilisi, di Kiev, ecc.. E’ sempre esistito un filo-occidentalismo russo. Perfino Pushkin ne scrisse, sferzandolo con sprezzanti parole. Sono quei russi che, per mille ragioni, s’identificano con l’Occidente. Ma non sono mai stati maggioranza e, meno che mai lo sono oggi. Eltsin e Gaidar li hanno già “assaggiati” e non vogliono ripetere la degustazione. Putin, dal canto suo, ha preso le sue contromisure. A Washington protestano, ma George Soros non potrà fare a Mosca e San Pietroburgo quello che ha fatto a Kiev, e a Belgrado. Tutti i partiti della Duma: dai comunisti di Ziuganov, ai seguaci di Zhirinovskij, al Partito Russia Giusta, sono compatti nel sostegno della politica estera di Putin. L’assassinio di Boris Nemtsov dev’essere collocato in questo contesto per essere capito. Quanto a presunti complottisti “nazionalisti” all’interno delle “strutture della forza” russe, nulla può essere escluso, ma non ci sono segnali di questo genere e le elucubrazioni in merito, fiorite sui media occidentali, brillano per la loro vacuità. La russofobia miete vittime tra gli analisti occidentali.
Leonardo Coen – L’economia malata fa zoppicare il modello di sviluppo putiniano ed ansimare il capitalismo di Stato. Tocchi soldi e interessi, incrini il regime. L’embargo finanziario ha infatti limitato la spregiudicata libertà d’azione degli oligarchi che hanno prosperato e spadroneggiato all’ombra del Cremlino. Il tempo delle vacche magre ha evidenziato le debolezze strutturali dell’economia russa, sempre più anatra zoppa: Putin deve affrontare il peggio. La fronda interna. E la recessione. Il Pil quest’anno arretrerà di almeno 4-5 punti. C’è carenza produttiva per fronteggiare la domanda dei consumatori. Manca la manodopera non qualificata, a causa delle dinamiche demografiche: nel 1989 i russi con meno di vent’anni erano 44 milioni, nel 2012 erano 30. Così la politica contro l’immigrazione si è trasformata in un boomerang. L’opposizione cavalca il malumore del ceto medio e le ansie della gente. Chi mette in discussione il sistema come Boris Nemtsov – con argomentazioni pericolosamente fondate su dati e circostanze ben precisate – va neutralizzato, secondo la nota formula di Stalin: non c’è persona, non c’è problema. E poi, c’è l’arsenale propagandistico studiato e praticato ai tempi del Kgb e della Guerra Fredda: la strategia del “complotto permanente”. Strategia che si avvale dell’indispensabile corollario patriottico. Il nemico è alle porta, ordiscono complotti contro la Russia, hanno orchestrato la svalutazione del rublo e il crollo del petrolio per sottrarci i ricavi delle nostre risorse. Non conoscono l’infinita capacità di sopportazione del popolo russo, quella che ci permise di sconfiggere l’invasore nazista. La Seconda Guerra Mondiale, in Russia, si chiama non a caso Grande Guerra Patriottica.
RAPPORTO DEL CREMLINO CON I MEDIA
Giulietto Chiesa – Il quadro “dittatoriale” che viene dipinto in Occidente è, come minimo, unilaterale e insincero. Il dissenso mediatico, a Mosca, esiste eccome: ci sono numerosi giornali di opposizione esplicita al governo e al Cremlino. Le televisioni private e le radio ostili a Putin esistono e trasmettono, i commentatori politici che fustigano la politica del Cremlino, interna ed esterna, sono numerosi. Non esiste nessuna censura sul web. E’ banale rilevarlo, ma è evidente che il Cremlino esercita la sua supremazia mediatica interna e domina soprattutto gli spazi televisivi. Non vedrei motivo di stupore al riguardo, specie in Italia, dove il coro mediatico è quasi interamente filo governativo e dove, nei confronti dei critici, si esercita senza cerimonie il sistema dell’esclusione. Ma il “pluralismo” dei media occidentali (negli Stati Uniti peggio che altrove) si è ormai da tempo trasformato in una grancassa unanime. Non basta essere “privati” per essere liberi e obiettivi. Sempre più spesso l’essere privati è diventato sinonimo di mercificatori dell’informazione. E questo lo capisce ormai una larghissima fetta di telespettatori e di lettori dei giornali. Tra l’altro si nota ormai una crescente inquietudine in Occidente per la “penetrazione” della “propaganda russa”. RT (in inglese) ha rotto il monopolio negli Usa, facendo infuriare John Kerry. E la signora Mogherini annuncia contromisure per fronteggiare gli evidenti successi dei canali tv russi in Europa, specie sul Baltico. L'”amica” Ucraina li oscura, semplicemente. Non stiamo dando un grande esempio.
Leonardo Coen – La propaganda presuppone il pieno controllo dei mezzi di informazione, dai giornali alle radio e televisioni, sino a internet. Lo Stato controlla direttamente, tramite il Gruppo Media Nazionale, alcune emittenti tra le più seguite, come Ren-tv e Quinto Canale. Il Cremlino ha in mano le principali agenzie di stampa, come Ria-Novosti che a sua volta finanzia Russia Today, un canale satellitare diffuso su tutte le piattaforme digitali a livello mondiale. Il resto dei media russi – nella quasi totalità – è in mano agli amici di Putin. Pochi resistono a quest’assedio, come il bisettimanale Novaja gazeta (tra gli azionisti, Mikhail Gorbaciov) e la Dozhd tv. Il cappio all’informazione indipendente si stringe sempre di più, i giornalisti scomodi rischiano la pelle, moltissimi sono stati uccisi, altri sono stati costretti a scappar via. In questo modo, si spiega la vastissima popolarità del presidente, un fenomeno di persuasione occulta che sconfina col culto della personalità. Putin ha curato e perfezionato la propria immagine di “macho”, a dispetto della sua figura non certo imponente. Pratica judo, pesca a torso nudo, abbraccia tigri, fa il top-gun, ama i bikers. Parla ai russi con la lingua del popolo, non con quella degli intellettuali, di cui diffida. Rievoca la grandezza imperiale. Dimostra rispetto e devozione nei confronti della Chiesa ortodossa, recupera il legame fiduciario che essa vantava con lo Stato prima dell’avvento sovietico. Si presenta addirittura quale salvatore della cristianità e dell’anelito indipendentista delle minoranze. L’annessione della Crimea ha scatenato un’ondata patriottica e innalzato i picchi dei sondaggi: “Senza la Russia non c’è Putin, e senza Putin non c’è la Russia”, è stata l’invenzione demagogica dello staff presidenziale.
CRISI UCRAINA E RAPPORTI CON USA E UE
Giulietto Chiesa – Per quanto concerne i rapporti con l’Europa, va detto che gli sviluppi della crisi ucraina, la sconfitta militare di Kiev nel Donbass, stanno aprendo una riflessione in Europa. Le contro-sanzioni russe hanno avuto un loro effetto, ma soprattutto l’ha avuto la costernata e ritardata constatazione che l’Europa non può inghiottire un boccone come l’Ucraina. Troppo grande e troppo disastrato, oltre che pericoloso. Il viaggio di Merkel e Hollande a Mosca, quello di Renzi, in solitaria, dicono che senza la Russia non si può eliminare il bubbone nazista in suppurazione a Kiev. Negli Stati Uniti sceglieranno di riarmare Kiev. Vedremo se l’Europa glielo permetterà. E’ evidente tuttavia che Putin è riuscito a incrinare la compattezza iniziale di Usa ed Europa.
Leonardo Coen – L’Occidente non ha mantenuto la promessa che era stata fatta a Gorbaciov, sostiene Putin e in questo ha ragione: cioè che la Nato non si sarebbe espansa ad est. Nella logica della Russia superpotenza (come ai tempi degli zar e dell’Urss), l’Ucraina non è nemmeno uno Stato, lo disse a Bush nel 2008, “parte del suo territorio è Europa orientale. Ma l’altra parte, quella più importante, gliel’abbiamo regalata noi” (Le sciabole dello zar, editoriale del numero di Limes “Progetto Russia”, n.3/2008). L’uscita di Kiev dall’orbita di Mosca non è tollerabile, lede la sicurezza nazionale. Alla lunga, però, la guerra non guerra con l’Ucraina si è rivelata una trappola: europei ed americani hanno imposto sanzioni con ricadute non indifferenti sull’apparato militare-industriale (in Ucraina ci sono 400 aziende ucraine, russe e miste che lavorano per la Difesa e l’export russo, come hanno scritto il Sole 24-Ore e Analisi Difesa). Il danno strategico è notevole. A Mosca preme un ritorno alla normalizzazione, però coi confini spostati più ad ovest: che è poi ciò che ha ottenuto nell’accordo con Hollande e la Merkel, a Minsk poche settimane fa. Spera solo che l’Europa si ribelli al diktat sanzionatorio di Washington, perché il conto dell’embargo è quasi tutto sulle spalle dell’Ue: senza dimenticare gli aiuti finanziari all’Ucraina.
RAPPORTI CON LA GRECIA
Giulietto Chiesa – Un eventuale aiuto russo (e/o cinese) alla Grecia potrà esserci, ma sarà subordinato agli sviluppi sia della crisi ucraina, che all’evoluzione della politica europea in generale verso la Russia.
Leonardo Coen – Vista da Mosca, Atene è il “grimaldello” per scardinare la fortezza traballante di un’Unione Europea a due velocità e per mettere in crisi i soloni dell’austerità, perciò vanno aiutati i movimenti che si oppongono al centralismo di Bruxelles. Tradotto: intensificazione diplomatica con la Grecia, plateali dimostrazioni di volere comunque aiutare finanziariamente un Paese “fratello”, per cultura e religione. Tsipras è stato a Mosca, mentre in Grecia si è visto il barbuto Alexander Dugin, politologo e filosofo che ha grande ascendente tra i “falchi” dell’entourage di Putin. L’idea di Dugin, sposata dal Cremlino, è quella di finanziare i movimenti estremisti e populisti che agitano le acque politiche all’interno dell’Ue, con lo scopo di destabilizzare le situazioni interne, e di favorire il sedizioso disegno di un’Europa delle piccole patrie: “Presidente, i popoli d’Europa confidano in lei…”, gli disse Philippe De Villiers, un politico francese monarchico, vandeano e ultrareazionario.
POSSIBILE RUOLO NELLA CRISI LIBICA
Giulietto Chiesa – La Russia sta già svolgendo un suo ruolo importante per conto proprio. Mosca sostiene Bashar el Assad e favorirà ogni mossa per impedire che Damasco sia rovesciata. Ma, anche qui, sarà utile tenere presente che Mosca è un negoziatore globale. Che, cioè, tiene conto di tutti gli scenari simultaneamente. L’idea – di Obama – di “contenere” Putin è semplicemente ridicola.
Leonardo Coen – La proposta di Renzi che vorrebbe coinvolgere Putin quale partner “responsabile” nell’eventuale missione (armata o meno) dell’Onu in Libia è stata accolta favorevolmente dal Cremlino, assai meno dagli Stati Uniti che hanno messo le mani avanti: prima Mosca dimostri di rispettare gli accordi di Minsk-2. I dubbi americani sono legati all’opinione che hanno di Putin: uno che non rispetta i patti e che fa i comodi suoi (come del resto loro…). Per l’Europa, la Russia rimane un partner di primaria importanza: non soltanto per la dipendenza energetica, ma per le prospettive di sviluppo delle relazioni commerciali, oggi raffreddate dalla guerra ucraina e dall’annessione della Crimea. Il mercato russo fa gola, “sdoganare” Mosca significa consapevolezza della necessità di difendere gli interessi europei, e gestirne le criticità. La Libia è l’ultima spiaggia per obbligare Putin ad abbassare i toni anti occidentali.
PERCHE’ IN OCCIDENTE PUTIN PIACE SIA ALL’ESTREMA DESTRA CHE ALL’ESTREMA SINISTRA?
Giulietto Chiesa – Putin “piace” a destra, in Europa, perché è questa Europa che non piace a milioni di europei. E’ naturale che molti – che si trovano di fronte a un’Europa nemica, guardino alla Russia come a un possibile alleato e partner. Aggiungo che questa Russia, che vuole conservare la propria tradizione, i propri valori, la propria storia, appare a molti più amica che non la globalizzazione e l’omogeneizzazione selvaggia imposta in Occidente dal pensiero unico americano. A sinistra il panorama è variegato. C’è chi ha già assorbito il pensiero unico e quindi preferisce mettere l’accento sul “dittatore”. Per costoro c’è la magistrale risposta di Luciano Canfora: “Il problema vero è che il tiranno è un’invenzione, una creazione politico-letteraria. Quando il suo potere si dimostra durevole, si deve realisticamente riconoscere che il tiranno (termine impreciso e iperbolico) è qualcuno che ha dalla sua un pezzo più o meno grande, talvolta molto grande, della società”.
Leonardo Coen – Un giorno Putin, nell’imperiale salone di San Giorgio del Cremlino, davanti alla nuova nomenklatura del Paese, ai più potenti cioè dei siloviki, degli oligarchi e dei dirigenti di un apparato statale sterminato e onnipotente, spiega la ragione intrinseca della sua crociata per riconquistare gli spazi vitali (e virtuali) della Grande Madre Russia, spiegò che “o rimaniamo una nazione sovrana, o ci dissolviamo senza lasciar traccia e perdiamo la nostra identità”. Visione apocalittica, certo, ma lui intendeva spronare l’élite del potere e il popolo a contrastare le oscure trame di un Occidente che vorrebbe “smembrarci”, come successe con la Jugolavia, “se per qualche nazione europea l’orgoglio nazionale è da tempo un concetto dimenticato e la sovranità un lusso eccessivo, per la Russia la vera sovranità è assolutamente necessaria alla sua sopravvivenza!” (discorso del 4 dicembre 2014 all’assemblea federale). Parole forti, dall’afflato patriottico. All’estrema destra piacciono. Sono la bussola che indica sicurezza, indipendenza, patriottismo, ossia la difesa della patria dallo straniero; e che esaltano il militarismo. Putin il Conservatore. Anche all’estrema sinistra ci si affida a Putin per essere aiutati a combattere il potere sovranazionale dell’Ue, per affondare l’Euro, per rivendicare il potere dal basso, contrapposto al potere del capitalismo selvaggio che ha prodotto la malefica globalizzazione. Sanno che Putin li considera “utili idioti” (lo diceva Lenin) e che lui li strumentalizza per destabilizzare l’Europa. Corrono il rischio. Non importa il mezzo, ma il fine. Quello di Putin è indebolire l’Europa.