Cinema

S is for Stanley, trenta anni di vita del mito Kubrick nel docufilm di Alex Infascelli

Dal suo studio di montaggio romano il regista sta ultimando durata, tagli e color correction dell'opera basata sul tempo passato dall’autista tuttofare Emilio D’Alessandro con il regista di Arancia Meccanica, Barry Lyndon e Shining

di Davide Turrini

Alex, Stanley ed Emilio. Non sta più nella pelle Alex Infascelli. Dal suo studio di montaggio romano sta ultimando durata, tagli e color correction di S is for Stanley, il documentario basato sui trent’anni passati dall’autista tuttofare Emilio D’Alessandro con il regista Stanley Kubrick. Il percorso automobilistico di Brands Hatch, i Pinewood Studios, la casa dove D’Alessandro ha abitato da “povero” con la moglie Jeannette, davanti al cancello di casa Kubrick: la macchina da presa di Infascelli ha ripercorso le tappe della vita dell’autista che chiedeva al grande cineasta “perché non hai preso Charles Bronson al posto di Jack Nicholson?” o “che palle, quanto son lunghi questi film”: “Non siamo stati al camposanto, ma abbiamo optato per una gita, luoghi dove i due hanno incrociato la loro esistenza, il tutto cavalcando una Mercedes 280 SL, l’auto preferita da Emilio”, spiega Infascelli a FQMagazine.

“L’ho tolta dal documentario, ma io con Kubrick ho una storia quasi esoterica”, racconta l’autore di Almost Blue e Il siero della vanità. Tracce di un fil rouge che annoda storia del cinema e indipendenza personale, settima arte e casualità, un tira e molla continuo che a un certo punto fa pensare che S is for Stanley non sia più una coincidenza: “Mio padre era un produttore cinematografico e io avevo tutto di Kubrick in casa: foto, libri e un Lp di 2001 di cui conosco a memoria la copertina. Stanley era talmente presente che pensavo fosse un nostro parente”, racconta Infascelli sul filo del ricordo. “Anni dopo la morte di mio padre non mi fregava più nulla di cinema. Vado a vivere a Los Angeles. Facevo il commesso nel negozio di Mickey Rourke. Vendevo jeans e stivaloni. Entra una signora che cerca un bracciale. Chiacchieriamo in italiano e a un certo punto mi fa: sono Milena Canonero. E giù a parlare di Stanley (la Canonero è stata costumista di Arancia Meccanica, Barry Lyndon e Shining ndr)”.

“Nel 2001 a Cannes al mio film viene gemellato un corto prodotto da Debra Winger – prosegue il ricordo di Infascelli – Lei è lì col marito Arliss Howard, il tenente Cowboy di Full metal jacket. E parte il ricordo di Stanley. Nel 2007 sono a Mtv a presentare Brand: New. Il direttore di rete Dall’Orto mi dice che metteranno in onda Arancia Meccanica in fascia non protetta e vuole che conduca uno speciale su Kubrick. Tanto che come per magia la moglie dall’Inghilterra mi dice che posso andare a casa loro a filmare perfino la Pearl di Stanley, la sua batteria rosso fiammante.

Infine nel 2010 incontrato Emilio lui mi fa “ma tu non sei regista? Perché non facciamo un film insieme sulla mia storia?”. A questo punto non si può dimenticare l’apporto cruciale di Filippo Ulivieri, coautore del libro su D’Alessandro e co-sceneggiatore del documentario: “Ci siamo svincolati totalmente dalle immagini dei film di Stanley ma lo ricorderemo anche attraverso aneddoti inediti di D’Alessandro. Ce n’è uno incredibile che vedrete nel film su quando Kubrick venne arrestato. Era appassionato di pistole e un bel giorno senza dire niente a nessuno prende l’auto da solo, si immette sulla M5 e va verso il poligono. Dopo alcune ore la polizia chiama a casa. Avevano arrestato Stanley perché andava a passo d’uomo, aveva creato una coda di tre chilometri, era al telefono mobile e aveva una pistola sul sedile. Emilio, che rispose alla cornetta, non smetteva di ridere”.

80mila euro di budget, produzione Kinethica e un insano amore per l’opera kubrickiana, Infascelli spiega il suo Kubrick, quello che oggi “andrebbe pazzo per Valzer con Bashir”, quello filtrato da episodi di vita reale raccolti nelle lunghe chiacchierate con la vedova Christiane: “Stanley non è mai stato un cinefilo. Mai una citazione, mai un gioco metacinematografico. Veniva dall’esperienza ottica dei mezzi tecnici con cui osservare il set. Non pensava al film, ma alla sua lavorazione e al suo farsi. Non era affascinato alle storie in sé, ma dai mondi che raccontava. Lui era un regista/produttore non un autore. Il suo cinema era un crossover di generi”. “E poi i conti su Eyes Wide Shut non tornano”, conclude Infascelli, “Stanley era molto sospettoso, non si fidava di nessuno se non di Emilio. Ovvio che EWS non l’ha finito lui perché i film non erano mai chiusi se non dieci minuti prima di essere proiettati all’anteprima in sala. Ci hanno messo mano più persone dopo la sua morte”.

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