Università di Torino: alcuni figuri (“autonomi” secondo il cronista) imbrattano una targa intitolata a Paolo Borsellino e non contenti pestano a sangue – trauma cranico – un ragazzo che aveva osato chiedere loro se fossero impazziti.
Se dei cialtroni non riescono ad avere alcun rispetto neanche per le vittime della mafia e la sofferenza dei familiari, è del tutto evidente l’abisso profondo di inciviltà che li ha inghiottiti. Ed è un’inciviltà che può facilmente generare mostri. Di più: poiché si tratta di studenti (?), è altrettanto evidente che cotanta inciviltà non può che essere il risultato di una spaventosa ignoranza. Che diventa arroganza, intolleranza e violenza tutte le volte che il branco riesce a trasformare la vigliaccheria in protervia, magari con la connivenza di chi non vuole fastidi. Ci sono – tutti – gli ingredienti “classici” dello squadrismo.
Ogni squadrista ignorante ama riscrivere la storia a proprio uso e consumo, inventandosi idiozie che poi racconta come fossero verità di fede. Così è stato per il Collettivo di Firenze, che per impedire la manifestazione di “Libera” ha messo nel mirino il sottoscritto, accusandolo di essere un “nemico” cui doveva essere negata in ogni modo la parola, a causa di “colpe” assolutamente farlocche individuate con patologica fantasia.
I terroristi delle Brigate rosse e di Prima Linea non erano delinquenti che praticavano con ferocia omicidi e gambizzazioni. Erano anzi, secondo il Collettivo, “movimenti sociali di operai, studenti e contadini che rivendicavano un cambiamento rivoluzionario verso una società più giusta”. E chi li ha combattuti con i codici (come ho potuto fare io, in quanto più fortunato dei colleghi Guido Galli ed Emilio Alessandrini, uccisi dal piombo terrorista) va punito per sempre togliendogli il diritto di parola nella libera (?) Università di Firenze.
Un’altra mia colpa è di aver chiesto il trasferimento da Torino a Palermo per dirigere quella procura dopo la morte di Falcone e Borsellino, assumendo come cifra della mia azione la “ragion di stato” e non più la “intransigenza legalitaria esercitata abbondantemente contro i militanti politici”.
Come diavolo si possa blaterare di intransigenza legalitaria venuta meno, a fronte dei 650 ergastoli e della montagna di anni di reclusione che sono il bilancio dei 7 anni in cui ho diretto la procura (oltre ai processi ad imputati eccellenti come Andreotti e Dell’Utri), è ragionamento – si fa per dire – che solo i sofisticati scienziati politici del Collettivo possono capire. Ma questa sequenza di stupidaggini è finalizzata a preparare la stoccata finale, quella sulle inchieste torinesi per i reati commessi in Val Susa dalle frange estremiste dei “No Tav”.
E qui ricasca l’asino. Perché una ferrovia con le vittime di mafia c’entra meno di niente. Per cui è evidente che il Tav (come sempre più spesso avviene) è evocato a mo’ di feticcio o di pretesto per altri scopi, magari senza neanche sapere bene cosa sia quest’alta velocità.
Pretendere di zittire qualcuno non è un fatto solo personale. È un attentato alle libertà e ai diritti che sono patrimonio di tutti, finché resisterà la democrazia che questi facinorosi odiano. Sullo sfondo c’è l’obiettivo di ottenere impunità per i reati ovunque commessi nell’esercizio delle funzioni di antagonisti organizzati, a partire dagli attacchi violenti contro il cantiere di Chiomonte e gli operai che ci lavorano per portare a casa la giornata. Mentre si stringe, sempre più soffocante, un cappio intorno al collo di chi rivendica il diritto di continuare a discutere liberamente dei costi e dell’opportunità dell’opera. Ma almeno una volta i soloni del Collettivo la raccontano giusta, quando ammettono che la legalità non può essere la loro bandiera. Come a dire che la legalità vale solo per gli altri, per i fessi. Non un principio costituzionale, ma un paio di ciabatte da mettere solo se fa comodo. Un assunto che non è propriamente in linea con la democrazia. E che dimostra come vent’anni di assalto alla giurisdizione abbiano ampiamente diffuso la moda del tiro al piccione del magistrato scomodo.
Piero Calamandrei, scrivendo di un giudice che era “una coscienza tranquillamente fiera, non disposta a rinnegare la giustizia per fare la volontà degli squadristi”, concludeva che “tra le tante sofferenze che attendono il giudice giusto, vi è anche quella di sentirsi accusare, quando non è disposto a servire una fazione, di essere al servizio della fazione contraria”. La disgustosa vicenda di Firenze dimostra che il vizio di denigrare (e schedare) chi non vuole omologarsi al pensiero della teppaglia è duro a morire.
Il Fatto Quotidiano, 13 Marzo 2015