Il nuovo album della band è riuscito, divertente e fresco. Sonorità grezze e immediate imperniate su ironia e surrealismo schizoide. Una matrice rock con innesti imprevedibili. E il gioco continua, goloso ma leggero, nei testi: l'importanza è più l'onomatopea, il gioco d'assonanza, l'associazione mentale anche illogica che il significato in senso stretto; la semantica frasale, per il gaudio dell'ascoltatore, va continuamente gambe all'aria
I Fratelli Calafuria sono Andrea Volontè (chitarra e voce), Paco Vercelloni (basso e cori) e, da un paio d’anni, Fabio Pansini (batteria, ex Seed ‘n’ Feed). Nel 2008 i singoli estratti dal loro primo album colpiscono critica e pubblico e sono messi in heavy rotation dal circuito indie. Ma è grazie a Fiorello e Baldini che la band milanese valica i confini dell’underground: Non So Perchè viene trasmessa a spron battuto da Viva Radio 2. Il secondo LP, Musica Rovinata, spinge l’acceleratore sul pop e dà il via alla collaborazione con il cantauto-rapper Dargen D’Amico.
La copertina di Prove Complesse, realizzata da Jacopo Legno, è un cervello su sfondo rosa decostruito in prospettive geometriche alla Escher, con tanto di simbolo esoterico in primo piano. Più che immagine, monito: “Preparatevi a giocare al Cubo di Rubik col vostro cervello”. Si attacca con la cassa dritta e il charlie in levare di House In Affitto, un brano che da subito ci fa capire come l’ibridazione sia sempre di casa: funk, dance, punk e un testo surreale (“il quinto piano fa venire le lentiggini / allora tiro uno schiaffo sulle vertigini”) scompongono ogni riferimento musicale e semantico; alla fine non si capisce più se la house in questione sia fisica o sonora. La seconda traccia – dà il nome all’album – è un meccanismo perfetto, entra in testa e mette radici; il dialogo tra il riff di chitarra e il basso è ricco, esauriente ma pulito: nessuno pesta i piedi a nessuno, ognuno fa la sua parte supportando l’altro. Campionamenti di vocine velocizzate alla Chipmunks arricchiscono intro e stacchi, mentre il ritornello vira il tutto, grazie all’atmosfera creata dal panning di arpeggi eterei, verso una melanconica sospensione.
Una matrice rock con innesti imprevedibili. Il gioco continua, goloso ma leggero, nei testi: l’importanza è più l’onomatopea, il gioco d’assonanza, l’associazione mentale anche illogica che il significato in senso stretto; la semantica frasale, per il gaudio dell’ascoltatore, va continuamente gambe all’aria. “la solitudine fa paura / L’abitudine fa la dura”, “se le premesse erano diverse / bisogna rivolgersi alle commesse” sono versi che non passano inascoltati. Il manifesto della poetica di Volontè, d’altro canto, è forse racchiuso proprio in questo verso: “Ho deciso di giocare al Lego con le esse”. Volontè sa giocare molto bene, sa coinvolgere e costruire per arrivare a nuove sonorità e significanze. Non rompe niente e rimette sempre tutto a posto. Cattive Compagnie, seppur godibile, è forse il brano meno a fuoco dell’album: il pattern ritmico è già sentito e richiama alcune composizioni di Dave Grohl: la strofa ricorda Stacked Actors dei Foo Fighters (crediamo che anche i bpm non si discostino molto) mentre il ponte è un calco (anche se leggermente più secco) di Scentless Apprentice dei Nirvana. Minigolf torna al punk/hardcore preso con ironia e ci parla di quanto, e come, ci si può lasciare andare dopo un amore finito male: “Mi son lasciato trascinare dagli alcolici e dal minigolf”. Anche nella azzeccatissima Ho Dipinto si parla d’amore e, anche in questo caso, non in modo esattamente ortodosso e lineare: secondo Volontè, ogni volta che prendiamo in mano un pennarello disegniamo istintualmente un qualcosa che ha a che fare con il primo amore. Nel suo caso, lo colora di rosso e diventa un estintore, e se “qualcosa brucia ancora, meglio spegnere”. Un peccato che Freud non abbia fatto la conoscenza dei Fratelli; loro hanno invece certamente conosciuto gli Incubus, Ho Dipinto richiama, in positivo, lo stile di S.C.I.E.N.C.E.
In frullato fosforescente ed energizzante di rock, funk, hard rock, synth pop continua con Tipa Inglese, Bionda Cenere, Più Via e Meraviglia, tra paradossi volutamente sgrammaticati (Checco Zalone gradirebbe), groove svirgolati e sincopati in odore di Michael Jackson, disimpegno grunge alla The Presidents of The United States of America e spolverate di new wave sintetica. Nomi e generi che servono solo a dare qualche coordinata approssimativa, perché i Fratelli Calafuria abitano un Atlantide sonora ancora nascosta – almeno agli artisti nostrani. Chiude Sbronzone, esilarante inno avant-punk. Prove Complesse è un album riuscito, divertente e fresco. Sonorità grezze e immediate imperniate su ironia e surrealismo schizoide. I Fratelli Calafuria sono necessari alla musica pop e rock italiana.