Non ce l’ha con gli uomini per partito preso (anche se glielo fanno notare sempre), non è una femminista dura e pura che “donna è meglio” ma ricorda il ’68 come una bellissima esperienza di condivisione gioiosa. Ha riso e pianto come una ragazzina di fronte alle storie di Carrie in “Sex and the City” ed è incurabilmente assuefatta da programmi tipo “Abito da sposa cercasi“. Detesta il ritocchino che azzera le imperfezioni e guai a nominarle Sandra Bullock perché proprio non la sopporta: un disprezzo viscerale, difficile da spiegare. La si può incontrare spesso in giro per la sua Milano, ma non la vedremo mai seduta sola in un ristorante di una città non familiare perché, dice, “nonostante gli anni e i chilometri, ci sono cose che da sola ancora non riesco a fare, come questa. E non tanto per me, ma per gli altri. Perché penso che si sentirebbero a disagio, o peggio che proverebbero pena per me, o curiosità un po’ morbosa, o attrazione un po’ malsana».
Quindi, quando è in tournée, o ricorre al servizio in camera o niente, salta la cena. Lella Costa è uno di quei personaggi – di quelle donne – che neanche la conosci e già ti senti di poterci parlare di tutto, come si fa con un’amica. Sarà proprio quell’alchimia tutta al femminile di cui racconta nel suo ultimo libro “Che bello essere noi” (Piemme), sarà che nel mondo dello spettacolo siamo sempre più orfane di modelli femminili in grado di fare pensiero. Lei ci riesce, benissimo, da sempre, con straordinaria acutezza e inconfondibile ironia. Quando la incontro a Torino in occasione del Salone Off 365, evento nato dalla costola del Salone Internazionale del Libro, svela in un attimo quell’irresistibile mix tra humor e garbo che la accompagna da sempre.
Lella Costa, una vita vissuta sempre con ironia, nel lavoro come nel privato…
Non potrei mai vivere senza. L’ironia è un’arte difficile da praticare ma salva la vita, a volte anche quella degli altri. Può essere uno straordinario atto di generosità nei confronti delle persone che hai vicino se sei capace ad usarla anche in situazioni estreme, di dolore.
A cos’altro non vorresti mai rinunciare?
Sicuramente non potrei lasciare la lettura. Forse anche il mio mestiere, ma se mi trovassi a dover scegliere tra lavoro e vita privata non avrei dubbi: mollerei il teatro e tutto il resto per dedicarmi alla mia famiglia.
Una presa di posizione che forse qualche maligno potrebbe usare per sostenere la solita vecchia tesi secondo cui noi donne vogliamo fare tanto le libertine intellettuali ma poi, alla fine, il posto che ci spetta è a casa, con marito e figli…
Un terribile pregiudizio che purtroppo è così radicato nel nostro quotidiano che spesso anche noi donne ne siamo convinte. Come racconto nel libro, in un noto negozio di giocattoli attentissimo all’aspetto pedagogico vendono due macchinine diverse per maschietti e femminucce: la prima è azzurra e si chiama Tornado, l’altra è rosa e si chiama, giuro, Penelope. Penelope, la fedelissima, incorruttibile sposa di Ulisse, che per vent’anni fa e disfa la sua tela senza mai concedersi non dico una gita in barca, ma neanche un bagno in mare. Penelope, calma, lenta, immobile. Qualcosa vorrà dire. Ma se è vero, come è vero, che nei nostri confronti vengono esercitate forme sempre più diverse di discriminazione, è anche vero che siamo noi le prime ad essere restie a far valere i nostri diritti.
Quote rosa sì o no?
Non piacciono a nessuno, viene lo scoramento già alla definizione, neanche lo sforzo di inventare qualcosa di meno infantilizzante. Anzi, di sicuro l’hanno fatto apposta per farci sentire ancora una volta inferiori, bambine ammesse in via del tutto eccezionale al tavolo dei grandi, ad assistere, non partecipare, sia chiaro. Ma la vera verità è che eliminarle equivarrebbe ad azzerare la nostra presenza, quindi teniamocele strette.
Dicevamo della famiglia: tutto sulle spalle di noi donne?
Spesso sì. L’amore più profondo è proprio guardare l’altro, prendersene cura. L’amore è una incredibile assunzione di responsabilità nei confronti degli altri. Ed è una capacità femminile.
Vuoi dire che gli uomini non sono in grado di amare?
Voglio dire che il genere maschile è tendenzialmente narcisista, e dunque concentrato su se stesso. Non parlo dei singoli uomini, ma proprio del maschile come categoria. Quante volte per strada ci capita di incontrare il tizio che ti chiede “come sto?” e non “come stai?”. Ma non mi ritrovo affatto nel ruolo dell’amazzone inferocita, della castigatrice, e neppure in quello della separatista che con gli uomini non vuole averci niente a che fare. Dico solo che è giusto avere ambiti diversi, in cui ritrovarci tra noi donne senza l’interferenza maschile. E lo dico io che nei miei spettacoli ho sempre lavorato con registi e co-autori maschi. Una contraddizione? Potrei rispondere che ho sempre pensato che ci volessero almeno cinque uomini per eguagliare il talento di una donna e mi sono attrezzata di conseguenza. La risposta seria è che non mi è mai interessato fare spettacoli riservati solo alle donne e mi è sembrato importante procurarmi anche il punto di vista maschile.
Allora, come scrivi nel tuo libro, non è vero che ce l’hai con i maschi…
Direi piuttosto che ce l’ho col maschile, inteso proprio come locuzione. Con la concezione maschile del potere, delle relazioni, con la visione maschile del mondo. Ce l’avrei anche col pensiero maschile se non avessi da tempo il sospetto che si tratti di un ossimoro (sorride…).
Quali sono i luoghi comuni sulle donne che detesti di più?
Non sopporto l’alterigia e l’arroganza con cui il maschile dice “anche voi avete diritto a…”. Se siamo ammesse a incarichi di potere, responsabilità, diritti, oserei dire a un discutibile Empireo, è sempre per grazia ricevuta. Non riesco a tollerare la sufficienza e l’ignoranza degli uomini che si approcciano alle tematiche femminili.
Cos’hanno le donne che gli uomini non hanno?
Un’innata capacità di ascoltare e capire. È il motivo per cui tra di noi troviamo quella confidenza immediata, quella chiacchiera minuta e avvolgente, quell’abbandonarsi allo sguardo e anche alla curiosità dell’altra, quel saper parlare davvero di noi. Tutte cose che gli uomini tra loro non fanno o fanno pochissimo. “Che bello essere noi” non significa che le donne sono sempre perfette. Quello che mi affascinava veramente di questo titolo non è tanto l’aggettivo quanto il pronome: noi. Io sono fortunata, la mia generazione ce l’ha avuta la prima persona plurale: noi giovani, noi femministe, noi rivoluzionari, noi marxisti-leninisti, noi che niente sarà più come prima.
Il primo capitolo del tuo libro è dedicato alla prostituzione, che reputi intollerabile. Potresti passare per moralista…
Il rischio c’è ma lungi da me la volontà di esserlo. È che proprio non me ne capacito. Gli uomini che vanno a prostitute in Italia sono 9 milioni: tolti i prepuberi, i placati, gli omosessuali e i religiosi (forse non proprio nella loro totalità, ma insomma), praticamente tutti. Ma nessuno lo ammette. Al massimo trovi quello che dice “Io ci sono andato una volta sola ma da militare, per la compagnia”, quello che “La prostituzione è come la guerra, c’è da sempre e ci sarà per sempre”, il tipo aristoliberal per cui “Io personalmente sono contrario, però non mi sembra corretto limitare la libertà di scelta dei miei simili”, quello che per pura onestà intellettuale si fa portatore di cruciali distinzioni: “Ah no! le schiave no, le minorenni no”, e quello che la butta sul commerciale: “Se è il mestiere più antico del mondo un motivo ci sarà, o no?”. Il punto è che la prostituzione ha a che fare con la concezione maschile del potere. È una sorta di dipendenza ma nessuno la reputa tale. Visto che è un problema degli uomini mi piacerebbe che fossero loro a parlarne finalmente.
Dai grande spazio anche al fenomeno della violenza sulle donne.
L’equivoco madornale è che la violenza sessuale, verbale o fisica che sia, nasca da un eccesso di desiderio e dall’impossibilità di controllarlo. “Mi ha vista e non è riuscito a trattenersi”. C’è perfino una specie di gratificazione: “Non ha saputo resistermi”. Balle. Non c’è mai alcuna relazione reale, personale tra il molestatore e la sua vittima. È un problema culturale e come tale va affrontato.
Allo stesso tempo però c’è un esercito di uomini diventati papà che hanno imparato a fare tutto, che ci aiutano anche nei ruoli tipicamente femminili…
Sono carini, ultrainformati e supertecnologici, ma sono anche quelli che agli amici dicono “Stasera non posso venire a calcetto perché devo fare il baby-sitter”. Vorrei che gli uomini provassero a ridefinire il loro ruolo di padri, anche conflittuale. Che tornassero ad essere dei modelli.
di Miriam Carraretto