“Confesso con gran dispiacere che con la mia musica ho trovato grosse difficoltà in Italia, che è stato uno degli ultimi Paesi in Europa a invitarmi a suonare – racconta Jack Savoretti, songrwriter indipendente italo-inglese, nel nostro Paese per presentare il suo ultimo disco Written in Scars, con il quale si è anche aggiudicato il titolo di ‘Miglior Nuova Proposta Internazionale’ agli Onstage Awards 2015 –. Ho capito in seguito che dal punto di vista musicale, l’Italia è un Paese con un sistema a porte chiuse, e se è chiuso è destinato a rimanere uguale e a non evolversi”.
E pensare che adora la musica italiana, “anche se più quella del passato che del presente. Sono cantautori come Luigi Tenco, Lucio Battisti, Lucio Dalla, Fabrizio De André, ma la lista è lunga, che mi hanno ispirato e spinto a scrivere canzoni. È stato bello quando anche l’Italia mi ha aperto le porte, ma è stato duro, più difficile che entrare in Inghilterra o Stati Uniti, che sono mondi e industrie più grandi musicalmente. A differenza dell’Italia, in Inghilterra c’è un’industria di musica indipendente favolosa. Chi apre etichette indipendenti sa cosa sta per fare, e proprio questa consapevolezza sta mettendo le major con le spalle al muro. Le major, a loro volta, stanno lavorando assieme alle etichette indipendenti per cercare artisti nuovi e proporre musica che innovi.
Si cerca di capire verso cosa la gente sta orientando i propri gusti e non si impone ciò che deve ascoltare. E questo rende l’industria musicale inglese sanissima. Una come Adele, ad esempio, che ha venduto 70 milioni di album, è un’artista indipendente. In Italia, invece, c’è una cultura basata sulla televisione e sui talent e reality show: in questo modo è come se imponessero cosa ascoltare, in Inghilterra invece c’è una cultura che dice ‘quello c’è già, andiamo a cercare qualcosa di nuovo’. Per me, oggi, è solo seguendo gli artisti indipendenti che si può ricreare una cultura nuova, fatta di musica nuova, di band nuove, di scrittori nuovi, di voci nuove, di opere nuove. Se si fanno sempre le stesse cose, la cultura rimane quel che è.
Nato a Londra, da padre genovese, “Genova è la cosa che mi lega all’Italia, come città, come squadra di calcio, il mio sangue è rossoblù”, e madre tedesco-polacca, dopo aver trascorso l’adolescenza in Svizzera, a Lugano, “una città di una bellezza incredibile, specialmente dal punto di vista della natura”, è lì che ha iniziato a scrivere le sue prime canzoni: “Il fatto è che non c’era molto da fare, suonare la chitarra assieme agli amici era l’unico passatempo. La bellezza che c’è intorno ti ispira, quell’ambiente ha reso romantica la mia adolescenza”. A 17 anni, dopo aver terminato il liceo, si trasferisce a Los Angeles, per iscriversi all’Università di San Francisco: “Ero in volo l’11 settembre 2001, quando è avvenuto l’attacco alle Twin Towers. Sono arrivato in un’America scossa, era un Paese diverso da quello che volevo vedere, e dove volevo stare, anche se ero affascinato da tutto quel che stava succedendo”.
Tornato a Londra, ha intrapreso la carriera di songwriter, e Written in Scars disco pop-folk con 11 brani, è il suo quarto lavoro: “È un album basato su un ritmo tribale, il mio intento era quello di dare l’idea di un trionfo. Le canzoni, invece, sono ispirate da luoghi e ambiti diversi, non sempre basati su esperienze specifiche, ma scritte con le cicatrici“. Finora ha ricevuto molti riconoscimenti, anche se il big break, come dicono gli anglosassoni, il vero successo, non l’ha ancora raggiunto: “Direi che la mia è una crescita lenta ma costante, ottenuta grazie a un gran lavoro e alla fatica. Sono molto contento di avere dei fan che mi seguono fin dagli esordi, che spargono la voce su quel che faccio con la mia band. Il mio pubblico aumenta anche grazie a loro. Continuare a fare quel che ho sempre fatto, senza cercare per forza di trovare il colpo grosso, è la soddisfazione maggiore. Sentire la gente nei vari Paesi del mondo in cui mi sono esibito che cantano le mie canzoni è una sensazione unica, fantastica”.