Non sono scarpe per tutti. Sono care? Sì. Sono di lusso? Decisamente sì. Ma la parola lusso, in questo caso, non calza (è il caso di dire) perfettamente. Perché anche quelle di Christian Laboutin costano un occhio, mentre le scarpe di Liam Fahy sono qualcosa di molto vicino ad un oggetto d’arte. Di origini irlandesi, ma nato e cresciuto in Africa, in un sobborgo della capitale dello Zimbabwe, Liam Fahy realizza, ma sarebbe meglio dire crea, scarpe tra le più costose al mondo, perché realizzate a mano una ad una, dai migliori artigiani italiani e in edizioni limitate. Inutile chiedergli chi sono questi maestri calzaturieri: li tiene gelosamente nascosti, come fanno alla Coca Cola con la ricetta della famosa bibita, perché, dice al FQ Magazine, «abbiamo impiegato anni per selezionarli. Abbiamo contattato oltre 50 aziende prima di scegliere le tre con cui lavoriamo oggi: è la qualità che ci distingue dai nostri concorrenti». Naturalmente, non è difficile immaginare che si tratta del distretto calzaturiero della zona Del Brenta, nel Veneto: “Gli italiani sono i migliori al mondo nel fabbricare i nostri particolari tipi di scarpe: non vanno di corsa e si concentrano su ogni minimo dettaglio”.
Concerie e pelletterie hanno fatto, nel bene e nel male, la storia del fiume Brenta e così, secoli dopo, questo è uno dei distretti calzaturieri migliori al mondo e qui vengono realizzate le scarpe di griffe come Louis Vuitton, Dior, Givenchy, Jill Sander. “Per un nuovo stilista, individuare la fabbrica giusta è cruciale, perché ognuna di loro interpreta il disegno in un modo diverso – spiega ancora Liam Fahy – Anzi, alcune di loro, specie le migliori, vanno convinte ad accettare i disegni di un nuovo stilista, e questo è difficile per chi non ha una comprovata esperienza o non ha ancora un mercato consolidato”. E sì, perché Liam Fahy, benché vincitore di numerosi premi in Italia, a Londra e in Africa, è ancora un giovane semi esordiente. Alla passione per le calzature, Liam Fahy è arrivato attraverso un percorso non comune. Quando era ancora studente di psicologia, decise di lasciare Harare – città nota per la presenza di scultori, musicisti, pittori e artisti in genere (dove probabilmente risiedono le basi della sua creatività) – per stabilirsi nelle remote valli dello Zambesi presso la tribù Tonga, dove è rimasto per un anno. Poi, dal cuore dell’Africa, il salto all’Università De Montfort, in Inghilterra, per seguire un corso di design della calzatura e di lì in Italia, ad apprendere il mestiere sotto l’occhio esperto di Rupert Sanderson nella sua azienda di Bologna. E infine l’approdo a Londra, dove Liam Fahy risiede tuttora e dove, nel 2010, ha lanciato il suo brand che nel 2013 gli ha fatto vincere il prestigioso premio British Fashion Council NewGen.
Oggi le scarpe di Liam Fahy sono amate dagli editori delle più importanti riviste di moda e sono diventate un vero e proprio oggetto del desiderio e non solo per chi se le può permettere: nonostante l’indubbio successo, infatti, Liam Fahy si tiene lontano dalla “fast fashion” continuando a produrre le sue scarpe rigorosamente a mano e in edizioni limitate. Per produrre un solo paio di scarpe ci vogliono 100 passaggi diversi tra disegno, taglio, cucitura, montaggio eccetera, che coinvolgono ben 35 persone perché “più è alta la qualità, più passaggi manuali occorrono. Questo conferisce alla scarpa un’autenticità e un’unicità che il processo meccanico non può dare». Per non parlare della suola firmata in nichel “che per essere prodotta richiede il doppio del tempo rispetto a qualsiasi altra scarpa di design”. Realizzare un prototipo costa, in media, 1.250 euro. Tanto per dire, come ha raccontato lo stesso Liam Fahy una volta, “le mie scarpe Lula sono classiche, eleganti e senza tempo. Sembrano semplici, ma abbiamo impiegato mesi per essere sicuri che modello e altezza del tacco fossero giusti per il piede”. Che poi è il motivo per il quale sono solo 200 al mondo i negozi dove è possibile trovare un modello Fahy (anche se esiste il negozio online che spedisce ovunque, specialmente negli Emirati…).
E poi ci sono i “progetti speciali”, che sono collaborazioni con altri stilisti e artisti per la realizzazione di scarpe che sono vere e proprie opere concettuali, prodotte in pezzi unici o quasi. “Sono scarpe troppo complicate o costose per essere prodotte in fabbrica – spiega Liam Fahy – e perciò rimangono rari prodotti d’arte”. Le creazioni di Liam Fahy sono state definite un «tributo all’artigianato italiano», visto che anche il pellame è tricolore. Solo le “dust bags” (le custodie) non sono italiane, ma vengono confezionate in Africa da una piccola organizzazione no profit di orfani dell’Hiv. Un’attenzione etica che si fa notare proprio nella (ancora) ricca regione del Brenta, dove l’industria delle calzature di lusso ormai sfrutta il lavoro grazie al sistema, spesso opaco, delle aziende in subappalto. “Per essere sicuri che le leggi sul lavoro sono rispettate nelle nostre fabbriche, Liam sovrintende personalmente alle linee di produzione (anche e soprattutto per quanto riguarda la qualità) – dicono dall’azienda – La quantità di scarpe che noi produciamo è comunque troppo piccola per sfruttare margini di profitto o spingere sugli straordinari e noi non abbiamo sufficiente potere per negoziare prezzi inferiori”. Secondo Liam Fahy, “per affrontare il problema bisognerebbe definire il made in Italy come “100% made in Italy”, mentre oggi un prodotto è definito made in Italy anche se è fatto in Italia solo al 50%. Questo provoca una competizione ingiusta nel mercato locale e alla fine incoraggia lo sfruttamento per essere competitivi”.
Benché abbia deciso di dedicarsi al segmento delle scarpe da donna di lusso (ogni modello porta un nome femminile) e non disdegni di avere un occhio anche per l’aspetto economico del business e della buona managerialità, non è (ancora?) diventato (molto) ricco, vive in un sobborgo di Londra e preferisce i bed and breakfast agli hotel cinque stelle. “E’ meglio fallire nella creatività, che avere successo con l’imitazione”, diceva Herman Melville, una massima che Liam Fahy ha fatto sua, rimanendo totalmente disinteressato alla produzione di massa e anche alle mode: «Seguo le tendenze solo per essere sicuro che non le seguo», se non altro perché ogni collezione viene disegnata con un anno di anticipo visto che la produzione richiede tempi lunghi. E’ così che le sue scarpe rimangono piccoli capolavori senza tempo.