Una piccola emozione. Sono seduto sul divano. Il Pc sulle gambe. Parte la nuova canzone di Luciano Ligabue, C’è sempre una canzone. Si tratta di una sorpresa, in parte, perché non è stata preannunciata, come ormai capita sempre più spesso nell’era di internet e dei leaks.
In realtà è una sorpresa per modo di dire, perché il brano non è esattamente inedito. Ligabue l’ha dato a Luca Carboni, che ne ha fatto una sua versione per il suo fortunato Fisico & Politico, album del ritorno. Oggi Liga compie 55 anni, e ha deciso di festeggiarlo con noi pubblicando il suo nuovo singolo, in barba alla scaramanzia (del resto già nel video di Una vita da mediano si prendeva gioco di chi è scaramantico). È il primo singolo dal doppio album dal vivo Il giro del mondo, e esce il giorno dell’esordio dell’ultima parte del fortunatissimo ‘Mondovisione Tour’ nei Palasport, data di Padova.
Di inediti, abbiamo saputo, ce ne sono quattro, tra i quali una versione di un altro brano regalato a un collega, anzi, tanto per non far arrabbiare la Boldrini, a una collega, Elisa, A modo tuo, una ballata intensa dedicata alla maternità/paternità. Parte il video che accompagna la nuova canzone, dicevamo, che nuova non è. La versione di Liga è assai differente da quella di Carboni. Molto più energica. Molto più rock. Ricorda qualcosa del Bon Jovi del periodo di It’s my life. Sotto si sente dell’elettronica, roba che magari già si è sentita quando al fianco di Ligabue c’era D.Rad degli Almamegretta, tragicamente scomparso. Proprio Ligabue, nelle ultime ore, ha ricordato il mai sufficientemente compianto Carlo Ubaldo Rossi, produttore storico della scena italiana che uno stupido incidente di moto ha portato via improvvisamente pochi giorni fa. Lo faremmo anche noi, se l’emozione non ci impedisse di essere lucidi.
Insomma, c’è dell’emozione in chi ascolta. Anche se Ligabue non rientra esattamente nel suo immaginario. Suo… nel mio immaginario, per capirsi, perché è di me che sto parlando, seppure in terza persona come una Cucinotta qualsiasi.
La canzone sembra fatta, almeno in questa versione del rocker di Correggio, per essere eseguita dal vivo, per essere cantata negli stadi. Parte dura, procede spigolosa, si carica nel ritornello. La immaginiamo cantata in coro. La sentiamo cantata in coro, anche se invece che a Padova siamo a Milano, sul divano di casa. Poi arriva un passaggio tra ritornello e strofa. Un passaggio musicale. Non uno special. Ma semplicemente un intermezzo, di quelli che in genere neanche si notano. Stavolta è diverso. Non potrebbe che essere così. Per tutti, specie per i suoi detrattori, Ligabue è quello che fa il verso a Springsteen. Qualcuno, più che altro per la citazione di Certe notti, azzarda un Neil Young. Ora, che ci sia un possibile parallelo col Boss è fuori discussione. Le tematiche dei suoi album hanno seguito, a distanza di un paio di decenni, quelle di Springsteen, prima con l’idea di fuga dalla provincia, di sentirsi inadeguati al mondo, poi con un’attenzione al proprio vissuto, alla propria vita privata, anche a discapito di una immedesimazione da parte dei fan della prima ora, poi di nuovo un’attenzione al mondo, con uno sguardo politico fino a quel momento quasi impensabile.
Anche la musica, per certi versi, un rock di chiara matrice Usa, non è poi così distante da quella del ‘Boss’, anche se manca, per dire, una figura come è stata quella di Clarence Clemons nei due gruppi di musicisti che nel tempo gli hanno ruotato intorno. Neil Young, invece, proprio no, non ce lo si riesce a vedere. Quindi, se a questo punto il nostro (il vostro, magari) decidesse di omaggiare Springsteen non saremmo qui a scriverne. Con spirito di cronaca, ma anche con meraviglia. Invece lui, il Liga, il rockettaro accusato di sapere giusto quei tre, quattro accordi, quello che in molti non vogliono riconoscere come una delle voci più importanti del nostro cantautorato, perché uno che scrive un verso come “Mia madre prepara la cena/ cantando Sanremo/ carezza la testa a mio padre/ e gli dice vedrai che ce la faremo” non può che essere studiato a scuola, ha ragione Franceschini, spiazza con un gesto che va a pescare proprio negli anni Ottanta, il nulla cosmico per buona parte degli amanti del rock.
Sì, perché proprio quando ci aspetteremmo che torni la strofa ecco che Liga inserisce, di sana pianta, un pezzo di Shout dei Tears for Fears. Riff riconoscibilissimo di synth, sincopato, quello che tutti gli amanti Roland Orzabal e Curt Smith non possono non aver riconosciuto. Un riff che da solo apre un mondo, il nostro, di quelli che negli anni Ottanta c’erano, che ascoltavano quella musica lì, mentre il mondo era tempestato di robaccia, che si sentivano rock anche guardando Deejay Television, lasciandosi andare a fantasie erotiche sul reggiseno di Annie Lennox, cercando la propria identità nei testi di Boy George o di Howard Jones, rincorrendo un corredo politico nei versi degli Scritti Politti. Ecco, Shout dentro C’è sempre una canzone di Ligabue è un omaggio a un passato condiviso. Lui coi suoi cinquantacinque anni, ognuno di noi con la propria età (io quarantacinque, quasi quarantasei).
Grazie, Luciano, a buon rendere.