Ascolto un gruppo di ragazzi, giovani, che sono stati in visita a Montecitorio. Sono disgustati dalle assenze dei parlamentari e tra quei pochi presenti non possono non notare come molti siano attratti da altre incombenze: il tablet, il telefonino, il quotidiano, due chiacchiere col vicino di banco mentre si succedono gli interventi dei colleghi.
E’ diffusa la pratica dell’indifferenza.
Eppure ogni assente in quell’aula è pagato anche per non essere lì, anche per essere ovunque sia, ne ha diritto e se ne sbatte di chi lavora davvero. E guai a toccarlo.
Penso ai ragazzi, giovani studenti, che mi raccontano quello che hanno visto (meglio sarebbe dire di quelli che non hanno visto) e all’esempio che ne hanno tratto, se saranno capaci di indignarsi ora e da qui in avanti e soprattutto mantenere questo sentimento, che col tempo ti convive come un dolore banale a tenerti compagnia, sintomatica vecchiaia. Quando facevo l’operaio in fabbrica dovevo rendere conto di ogni mia assenza e dovevo rispondere di questo. Lavorare era una necessità, ma farlo bene era un dovere e tutto questo senza avere sulle spalle la responsabilità di decidere per una nazione. Non si può governare un paese quando si è altrove e i banchi vuoti di Montecitorio sono pieni di una sola consapevolezza: per tutto questo ciascuno di quegli assenteisti non percepirà un soldo di meno, ché la nostra volontà di indignarci se la sono già comprata da un pezzo.