“Alberto Stasi uccise Chiara Poggi“. Quei 16 anni inflitti all’ex bocconiano il 17 dicembre scorso nel processo d’appello bis vengono motivati in solo 140 pagine: di cui solo la metà dedicate all’analisi delle prove e del movente. Ebbene quest’ultimo resta un mistero per i giudici della corte d’Assise d’appello di Milano: lo studente agì “senza fatica e senza alcuna pietà”, massacrò la sua fidanzata con vari colpi, ma “per un motivo rimasto sconosciuto“, poi tornò a casa “facendo le sole cose che potesse fare, quelle di tutti i giorni: ha acceso il computer, visionato immagini e filmati porno, ha scritto la tesi, come se nulla fosse accaduto”. Ed è forse in questa passione per immagini anche “raccapriccianti” che i magistrati individuano la “motivazione forte” che ha “provocato (..) il raptus omicida”. La “passione” di Alberto “per la pornografia” avrebbe potuto “provocare discussioni, anche con una fidanzata di larghe vedute”. Diventando così “una presenza pericolosa e scomoda, come tale da eliminare per sempre dalla sua vita di ragazzo perbene”.
“Il suo racconto è quello dell’aggressore e non dello scopritore”
La 26enne il 13 agosto del 2007 aprì la porta a una persona che conosceva e sapeva perfettamente come muoversi nella villetta di via Pascoli. Un uomo arrivato lì in sella a quella bicicletta nera vista da una testimone. Ecco che questi elementi danno, per i giudici, un volto all’assassino: quello di Alberto Stasi. Che ha mentito a tutti costruendo un “racconto incongruo, illogico e falso“. Bugie sul ritrovamento del corpo e sul percorso fatto, menzogne sul prima e sul dopo l’arrivo in quella casa: “Il suo racconto è quello dell’aggressore, non dello scopritore” ragionano i giudici.
Le prove: dal dispenser al Dna sui pedali della bicicletta
Le impronte sul dispenser portasapone, nel bagno dove si lava l’assassino, “dimostrano che Stasi” lo “maneggiò per lavarlo accuratamente” e che fu “l’ultimo soggetto a maneggiare quel dispenser”. Una “prova indubbia” per i giudici. L’imputato “non ha mai menzionato, tra le biciclette in suo possesso, proprio la bicicletta nera da donna subito collegata al delitto”, quanto ai pedali della bici sequestrata “era presente copiosa quantità di Dna di Chiara Poggi, riconducibile a materiale ‘altamente cellulato’: tali pedali non sono risultati quelli propri di quella tipologia di bicicletta, venduta alla famiglia Stasi con pedali diversi e di serie”. L’ipotesi accolta, quindi, è che l’imputato, consapevole delle dichiarazioni di un teste che parlava di una bici nera, scambiò i pedali della bici con quella di un’altra, che invece fu sequestrata permettendo il riscontro del Dna. Alberto “ha fornito un alibi che non lo elimina dalla scena del crimine”, oltre al fatto che, come l’assassino, calza scarpe numero 42.
“Chiara non ebbe il tempo di reagire”
“La dinamica dell’aggressione evidenzia come Chiara non abbia avuto nemmeno il tempo di reagire, dato questo che pesa come un macigno (…) sulla persona con cui era in maggior e quotidiana intimità”. La ricostruzione fatta dai giudici rimarca “una sorta di progressione criminosa, dipendente dalla reazione della vittima, già inizialmente colpita al capo, e poi di nuovo e con maggiore violenza ancora colpita, in prossimità della porta della cantina, fino alla azione finale del lancio, a testa in giù, lungo le scale”. Nelle motivazioni si sottolinea come “tale condotta, tuttavia, all’evidenza supportata da un dolo d’impeto, scatenato da quel movente che non è stato possibile accertare, va valutata nella sua unicità e nel suo sviluppo indirizzato verso l’esito finale voluto, ovvero la morte della vittima”. La difesa di Stasi lo ha descritto come “la vittima di un caso giudiziario che lo ha costretto per oltre 7 anni a doversi difendere” e anche lui, nelle dichiarazioni spontanee rese in aula lo scorso 17 dicembre, poche ore prima della sentenza di condanna, “ha parlato di sé in tali termini, sostenendo un vero e proprio accanimento nei suoi confronti”, ma per i giudici d’appello di Milano “in realtà la sola vittima di questo processo è Chiara Poggi, uccisa a 25 anni dall’uomo di cui si fidava e a cui voleva bene, che l’ha fatta definitivamente ‘scomparire’ in fondo alle scale”.
I giudici criticano la conduzione delle indagini
In questo secondo grado l’istruttoria è stata riaperta: nuove perizie e nuove testimonianze. È per questo che scrivono i giudici: “è opportuno svolgere alcune considerazioni sulle modalità di conduzione delle indagini sul delitto, che hanno trovato conferma anche nelle ultime acquisizione del presente procedimento. La Corte ha infatti preso atto – si legge – delle molte criticità di alcuni degli accertamenti svolti, riconducibili a errori e negligenze anche gravi e non solo dall’esperienza degli inquirenti” anche se “no si può negare che in molte occasioni sia stato proprio l’imputato (personalmente e non solo) a indirizzare e a ritardare le indagini in modo determinante e a sé favorevole (quindi sostanzialmente fuorviante)”.
Otto anni fa il delitto, assoluzione annullata da Cassazione
Sono passati quasi 8 anni anni da quella mattina del 13 agosto 2007 quando l’allora studente della Bocconi chiamò il 118 dicendo di aver trovato la fidanzata ferita. Stasi era stato indagato, poi fermato e quindi rilasciato. E sia il gup di Vigevano che i primi giudici d’appello di Milano lo avevano assolto. Una sentenza annullata dalla Cassazione il 18 aprile 2013 che aveva rinviato gli atti per la celebrazione di un nuovo processo d’appello. E da quel verdetto che era iniziato il nuovo percorso giudiziario per la risoluzione del delitto di Garlasco che ha portato alla prima condanna per l’imputato. Che di fatto non è definitivamente risolto perché questa sentenza potrà essere impugnata dalla difesa come prevede la legge.