Nel 2014 i vitalizi degli ex parlamentari sono costati allo Stato, cioè tra l’altro a me e a ciascuno dei lettori, la bellezza di duecentotrenta milioni di euro. Nello stesso 2014 il personale dell’università italiana è diminuito di 960 unità rispetto all’anno precedente. Rispetto al 2008 l’università italiana ha perso nel complesso 7.613 unità, passando da 63.290 a 55.677: il 12 per cento in meno. Come se non bastasse, questa perdita è stata non solo quantitativa, ma anche qualitativa, poiché al pensionamento di molti docenti a fine carriera si è risposto (quando si è potuto) assumendo personale precario, perlopiù ricercatori a tempo determinato. Quasi 4.000 delle 55.000 persone che lavorano nell’università oggi non sono di ruolo. E, se l’andamento dei finanziamenti sull’università non si modificherà, difficilmente potranno diventarlo.
L’università non ha soldi, mentre, d’altra parte certi privilegi veramente anacronistici e scandalosi non vengono scalfiti.
Viviamo sempre di più di simboli. Pasolini diceva che la cultura di una nazione non si esprime attraverso gli intellettuali, i libri o i film, ma attraverso i comportamenti, e che il dramma dell’Italia era che questi comportamenti – lui parlava degli anni Settanta – erano sempre più omologati, cosicché quelli di chi si professava di sinistra erano uguali a quelli di chi si professava di centro o di destra.
Da qualche tempo l’universo del potere sta radicalizzando le proprie forme simboliche attraverso una sorta di topologia dei comportamenti. Da un lato c’è chi mostra attraverso atti, gesti, scelte, il volto “normale” del potere: c’è un Papa che vive in due stanze e un Presidente della Repubblica che va in tram o prende l’aereo di linea per il suo fine settimana. Qui il potere si vuole qualificare come vicino “alla gente”. Dall’altro lato c’è chi mostra il volto arrogante del potere, chi sfreccia con la sirena nel traffico e decide di non decidere alcunché ogni volta che si tocca il tema dei vitalizi. In questi casi, con alcune lodevoli eccezioni, l’omologazione di cui parlava Pasolini riaffiora: il privilegio mette d’accordo la sinistra e la destra, senza distinzione. Anche quando si prova, come ha fatto di recente il presidente Grasso, a far decadere dal vitalizio gli ex parlamentari condannati per gravi reati, l’accordo c’è a parole, ma nei fatti i dubbi, le riserve, le cautele prevalgono sempre e tutto resta com’era. Il potere riafferma in questo modo la sua distanza, sorda ai suoni e ai richiami che provengono dal paese. Per quanto il primo atteggiamento susciti decisamente più simpatia, nessuno dei due comportamenti incide direttamente sulla vita delle persone.
C’è però un terzo comportamento che comincia a distinguere qualche settore, per ora minoritario, della politica: un senatore a vita rinuncia alla sua indennità e la devolve a favore di giovani architetti incaricati di rammendare le nostre periferie; un gruppo parlamentare decide di destinare gran parte dell’indennità dei propri deputati e senatori a favore di un fondo di sostegno per le piccole e medie imprese. Qui il gesto, pur nella sua dimensione simbolica, ha una ricaduta concreta: ciò che qualcuno perde (volontariamente) va a beneficio di altri, un po’ come accade con i terreni confiscati (forzosamente) alla mafia che finiscono ad associazioni, cooperative e comuni attraverso Libera. Allora, perché la sinistra, ora che, come si vede tutti i giorni, ha la forza parlamentare per fare quello che vuole, non fa qualcosa di sinistra e non discute dell’eliminazione dei vitalizi o – che sarebbe già molto – del loro dimezzamento, destinando all’università le somme risparmiate, con l’obbligo di impiegarle per assumere giovani ricercatori? Investire sul futuro grazie alla ricerca vuol dire dare una chance di crescita stabile e duratura al paese. Un assegno di ricerca costa circa 22.000 euro all’anno, un ricercatore più o meno il doppio. Se si dimezzassero gli importi dei vitalizi si potrebbero assumere circa cinquemila assegnisti o duemilacinquecento ricercatori; se si abolissero del tutto, i posti raddoppierebbero. Sarebbe una scelta simbolicamente fortissima. Perché l’università non fa sentire la sua voce? Perché qualche gruppo politico non fa sua quest’idea?