Abbiamo appena presentato il nuovo Rapporto annuale sulle carceri dell’associazione Antigone. Il Rapporto è il frutto del lavoro del nostro Osservatorio nazionale sulle condizioni di detenzione in Italia, una struttura nata nell’ormai lontano 1998 con caratteristiche decisamente pionieristiche. Quell’anno, infatti, l’allora capo delle carceri italiane – Alessandro Margara, un magistrato di sorveglianza con un’idea della pena aperta e rispettosa dei diritti di tutti – rispose affermativamente a una nostra richiesta che probabilmente in molti avrebbero rifiutato (e in molti hanno rifiutato in giro per l’Europa a organizzazioni analoghe alla nostra): potevamo entrare a vedere le carceri con i nostri occhi? Potevamo monitorare di persona la vita interna e raccontare all’eterno cosa succede oltre quel muro?
Margara autorizzò alcune decine di osservatori di Antigone a visitare le carceri del Paese con prerogative analoghe a quelle che la legge conferisce ai parlamentari. Le prigioni devono essere luoghi aperti e trasparenti, l’amministrazione penitenziaria non deve avere nulla da nascondere: questa la filosofia dietro quelle autorizzazioni.
Dal 1998 giriamo per le carceri italiane. Ogni anno pubblichiamo un Rapporto nel quale raccontiamo e tentiamo di interpretare quel che abbiamo visto. Da due anni entriamo in galera anche con le telecamere, così da raccontare meglio la nostra osservazione.
Oggi pubblichiamo l’undicesimo Rapporto sulle condizioni di detenzione in Italia. E cosa ci dice questo Rapporto? Che in carcere si sta meglio di quanto non si stesse due Rapporti fa. Che le riforme fatte per rispondere alla condanna dell’Europa sono servite a qualcosa. Che non bisogna fermarsi, perché c’è ancora tanto da fare per garantire a chiunque quei diritti che non si possono togliere a nessuno, libero o detenuto che sia: il diritto alla salute, all’istruzione, alle relazioni affettive. E ci dice inoltre che la diminuzione del numero dei detenuti non ha portato a un aumento dei reati commessi.
Tutta quella gente che abbiamo messo fuori tra le grida di chi urlava allo svuota-carceri e alle città far west non è corsa a perpetrare delitti. Al 28 febbraio 2015 i detenuti erano 53.982. Alla fine del 2011, anno nel quale sono stati presi i primi provvedimenti a scopo deflattivo, erano 66.897. In tre anni sono scesi di 12.915 unità. Nel 2014, gli ingressi in carcere dalla libertà sono stati 50.217. Nel 2008, in piena ondata securitaria e con Roberto Maroni al Ministero degli Interni, sono stati ben 92.800. In sei anni, 42.683 in meno. Una diminuzione dovuta alle modifiche alla legislazione sugli stranieri e alle nuove norme in materia di arresto e di custodia cautelare.
Ma il calo della popolazione detenuta non ha prodotto un aumento della criminalità esterna, smentendo tutti coloro che vogliono imporre il nesso ‘più criminali in carcere, meno reati fuori’. I delitti, nella fase storica del decongestionamento carcerario, sono diminuiti. Nel 2014 l’indice di delittuosità è diminuito nell’insieme del 14%. Gli omicidi sono scesi dell’11,7%, le rapine del 13%, i furti dell’1,5%.
I detenuti scarcerati non hanno commesso crimini che hanno messo a rischio la sicurezza esterna. Cosa pensare? Forse che in galera, tra quelle persone poi liberate, non c’erano solo efferati criminali pronti alla recidiva, bensì in grande parte persone – principalmente, come i dati mostrano, immigrati e consumatori di droghe arrestati con un po’ troppa leggerezza – certo con problemi di carattere sociale ma privi di una spiccata natura criminale. E allora la domanda resta questa: vogliamo cercare di usare un po’ meglio la galera e il sistema delle pene?