Progetto nove mesi
Foto: Stephanie Gengotti, ‘Progetto 9 mesi’

Il parere di Dolce (e forse anche di Gabbana) in merito all’espressa preferenza per la “famiglia tradizionale”, non approvando i “bambini sintetici”, ha subito fatto emergere la cultura impregnata di omofobia e intolleranza presente nel nostro paese. Dall’immancabile Carlo Giovanardi che paragona i “talebani gay” a potenziali criminali sino al leader di Forza (Nuova ?) Roberto Fiore che regala ai due stilisti eletti al rango di sociologi la tessera del suo movimento esercitandosi in motivazioni che vanno dall’immigrazione alla Pasta Barilla.

Secondo i dati dell’Istituto Superiore di Sanità italiano sono circa centomila i figli cresciuti da genitori omosessuali (in Francia sono più del doppio e negli Usa 14 milioni, compresi quelli nati da relazioni eterosessuali). I maggiori problemi che incontreranno nella loro vita, secondo la maggioranza degli studi, sono dovuti alla possibile stigmatizzazione sociale derivante dalla cultura omofoba. Quindi per  loro i problemi arriveranno probabilmente dai seguaci dei vari Giovanardi e Fiore e non, come mostrano ad esempio gli studi di Fiona Tasker della Birkbeck University ok London, dalla difficoltà di assumere ruoli di genere o di definizione dell’orientamento sessuale. Ma, in generale, i nuovi nati in quali “famiglie tradizionali“ cresceranno?

L’Osservatorio Nazionale sulla Famiglia ne parla in questo modo: in tutta Europa si assiste a una maggiore diffusione delle convivenze more uxorio (famiglie di fatto anche se non sposate), delle famiglie monogenitoriali, delle step-families (coniugi divorziati e figli dei matrimoni precedenti) o famiglie ricostituite. Il numero dei matrimoni è quasi dimezzato, passando da quasi 1 (0,8) ogni cento abitanti (negli anni ‘60) a 0,5 ogni 100 abitanti. Il numero dei divorzi da 1 ogni 15 matrimoni a 1 ogni 3. I tassi di fertilità a circa 1,45 figli per donna. Non solo. Cresceranno in un contesto, se non altro in Italia, in cui una famiglia su quattro (14,6 milioni di persone) è a rischio di povertà (dati Istat rapporto ‘Noi Italia’).

“Famiglie tradizionali” non sostenute da politiche sociali che le aiutino a sostenere le spese impreviste e che accumuleranno arretrati nei pagamenti (mutui, affitti, bollette). La “famiglia tradizionale”, in Italia, resta il solo aggregato portatore preferenziale di diritti, ma nel frattempo è divenuto un insieme di individui, parecchi dei quali a serio rischio di povertà.

Occorrerebbe passare da una idealistica “Famiglia tradizionale” a una ricostruzione di politiche di welfare che mettano gli individui al centro della soggettività dei diritti, indipendentemente dalla loro forma di aggregazione sociale. Le politiche famigliari adatte a questo nuovo modo di stare in società dovrebbero avere come fine le pari opportunità e la sostanziale equivalenza fra le differenti forme familiari. Nessuna differenza quindi fra matrimonio e convivenze, tra coppie etero e omosessuali o famiglie monoparentali. I diritti dei bambini dovrebbero essere slegati dalla relazione che c’è fra i loro genitori. I diritti, concepiti in senso universalistico, sarebbero cioè rivolti a tutti, indipendentemente dal tipo di famiglia in cui si vive, dei mezzi di cui dispone o di qualsiasi altra misura selettiva.

Un sogno? No, è già realtà nei paesi europei che hanno adottato il cosiddetto modello scandinavo di welfare. (In Danimarca il sussidio sociale per un singolo over 25 è di 1.325 euro, escluso l’aiuto per l’affitto, che viene elargito a parte e che arrivano a 1.760 euro per chi ha figli).

E visto che si parla di diritti, evviva Dio, che valga pure il diritto di essere single e di non desiderare avere figli.

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