Siamo a Piacenza, città dove l’architettura è un elemento tutt’altro che trascurabile. Fin dai tempi del centro romano. Come ha dimostrato il ritrovamento dei resti proprio al di sotto della struttura di proprietà dell’Enel. Le indagini del 1981 coordinate dalla Soprintendenza archeologica dell’Emilia-Romagna, individuano parti delle mura e, all’esterno di esse, di un grande edificio che, a dispetto della prima interpretazione secondo cui si sarebbe trattato dell’anfiteatro, deve ritenersi il teatro.
Ma, nonostante si trattasse di ‘una scoperta di eccezionale importanza‘, come dichiarato dalla Soprintendente Mirella Marini Calvani, viene deciso di ricoprire ogni cosa, in attesa di tempi migliori. Così si porta a termine l’edificio moderno, che in base al Prg del 1980 è classificato come ‘Servizi Pubblici-Impianti Tecnologici’. Terminato l’utilizzo inizia la stagione dei diversi passaggi di proprietà. Nell’ottobre 1999 Enel spa conferisce, insieme ad altri 150 immobili, l’edificio a Enel produzione spa che lo conferisce a Sfera spa. Ne segue la vendita, per oltre 5 milioni di euro, a Enel Real Estate che lo conferisce a Dalmazia Trieste, anch’essa una società del gruppo.
L’operazione sembra definita, ma non è così. Nel Piano di recupero, approvato dal Consiglio comunale nel luglio 2010, viene eliminato il vincolo di uso pubblico a favore di una destinazione che ammette interventi edilizi, compresa la demolizione e la ricostruzione per usi privati. Nel contempo viene ridotta la quota di parcheggi pubblici a favore di una piccola palestra con relativi servizi, a uso di un vicino edificio scolastico. Nel luglio 2014 la giunta comunale dell’amministrazione guidata dal Pd Paolo Dosi approva un ‘aggiornamento’ del Piano di recupero, con permesso di costruire, che cancella il secondo piano interrato di parcheggi e, quindi, la vista delle strutture antiche. Un aggiornamento si dice in occasione della presentazione del progetto nell’Auditorium Sant’Ilario, concordato con la Soprintendenza archeologica. Non è così.
A partire dalla sezione locale di Italia Nostra, alla quale dagli uffici dell’organo periferico del Mibact, nel novembre 2014, arriva una lettera nella quale si afferma che “dall’esame della documentazione progettuale si evince che non verrà rimossa la soletta di cemento armato a suo tempo costruita a protezione dei resti rinvenuti nel 1981. Dal momento quindi che i lavori previsti non rappresentano alcun rischio per la conservazione dei suddetti resti, si ritiene non siano necessarie ulteriori prescrizioni di tutela”.
Le associazioni non si danno per vinte, evidenziando aspetti pochi chiari, sia riguardo le questioni economiche che quelle urbanistiche. Sottolineando il fatto che nessun organo dello Stato abbia seriamente pensato di evidenziare le testimonianze romane, mettendole in mostra, piuttosto che nasconderle sotto una soletta di cemento.
Ogni cosa sembra pronta perché, a breve, dai nuovi uffici e appartamenti ci si possa affacciare sul Palazzo Farnese. Dopo lo splendore degli inizi, i saccheggi e gli abbandoni Settecenteschi e Ottocenteschi e quindi la rinascita nella seconda metà del Novecento, il Palazzo dovrà sopportare questa nuova sciagura. Meno male che Ottavio Farnese, l’ideatore di queste architetture, ormai non può vedere.