(prosegue dal post precedente)
I suicidi
Dopo i numeri sull’eutanasia clandestina, l’altro dato inquietante è quello dei suicidi di malati terminali o comunque affetti da malattie, fisiche o psichiche, non guaribili e tali da provocare sofferenze intollerabili. Secondo l’Istat, i suicidi legati a queste cause sono circa mille l’anno, e poco più di mille i tentativi di suicidio non riusciti (una tragedia, quest’ultima, ancor più grave della prima). Viene spontaneo il parallelo con le mille “morti bianche” che ogni anno funestano il mondo del lavoro, suscitando più che giustamente sdegno, dolore e rabbia. E sono, quelli dell’Istat, “solo” i suicidi rilevati dalla Polizia e dai Carabinieri, cui bisogna aggiungere i tanti di cui non conosceremo mai né il numero né la storia: quelli per i quali il medico amico scrive “cause naturali” nel certificato di morte, per evitare ai familiari la riprovazione sociale che ancora circonda i congiunti dei suicidi. Nel corso degli ultimi 7-8 anni ho reso noti questi dati in due lettere a Repubblica e in numerosi articoli su Il Riformista e su L’Unità. Eppure i giornali si occupano del suicidio solo quando a commetterlo sono persone famose come Lucio Magri, Mario Monicelli, Carlo Lizzani o Carla Ravaioli. E mai ricordano che nel nostro paese il dramma su cui stanno scrivendo si ripete almeno cinque volte al giorno.
Come sono arrivato a parlare di 1.000 suicidi? Ho proceduto in modo induttivo. Nel 2008 i suicidi sono 2.828; 1.316 hanno come movente le malattie, fisiche o psichiche; 463 hanno altri moventi (motivi d’onore, affettivi o economici); per 1.049 il motivo è “ignoto o non indicato”. Ipotizzando – certamente per difetto – che metà dei suicidi per malattie avrebbero preferito, grazie all’eutanasia, morire serenamente e senza sofferenze nel proprio letto, vicino ai propri cari, siamo a 658. Facendo la stessa ipotesi per i suicidi di cui non si conosce il movente (1.049) la metà dà 524. Sommando le due cifre, si giunge a 1.182. Dunque, parlando di 1.000 suicidi, ho fatto una ulteriore tara ai dati. Lo stesso ragionamento si può dare per i tentati suicidi, che sono più numerosi (3.327 contro 2.828): dunque, in questo caso avrei potuto dire più di 1.000.
Ho interpellato su questo il mio amico Alessandro Solipaca, Segretario scientifico dell’Osservatorio nazionale sulla salute nelle regioni italiane della Università Cattolica di Roma, il quale mi ha detto con franchezza – ed io ritengo giusto riferirvelo – che da un punto di vista scientifico non è possibile giurare sulle reali motivazioni dei suicidi, ma al tempo steso ha ritenuto corretto il mio ragionamento e plausibili le mie conclusioni.
Un ultimo dato basterebbe ad evidenziare l’orrore di queste “morti indegne”: in quelli che l’Istat chiama “mezzi di esecuzione” al primo posto (1.130 casi) figura l’impiccagione, al secondo (573) la cosiddetta “precipitazione”.
Forse anche a causa della mia insistenza su questi dati – e di una certa eco sulla stampa – su di essi è calata una cortina di censura. Le ricerche su come si muore negli ospedali, frequenti fino al 2007, sono improvvisamente cessate. E tutte le richieste, di varie forze politiche, di una indagine parlamentare sulla eutanasia clandestina sono state respinte. Dal canto suo l’Istat, dopo aver emanato delle “linee guida” su come rendere noto il fenomeno dei suicidi (riassumibili così: attenti all’effetto imitativo!) a partire dal 2009 ha eliminato dalle sue tabelle la colonna “moventi”, negandoci così proprio la informazione che rispetto alle altre (sesso, età, lavoro ecc.) è la più importante se si vuol capire perché la gente si suicida.
Chi “ha diritto” all’eutanasia?
Ho spiegato in un precedente articolo sul mio blog le ragioni per cui ritengo che i malati di Alzheimer dovrebbero “aver diritto”alla eutanasia, avendo dichiarato la loro volontà, “ora per allora”, in un testamento biologico. Dunque non ci torno, ma noto che il tema eutanasia/Alzheimer richiama un argomento più generale.
Michele era un anziano scapolo, un uomo elegante, riservato, pudico. Non fu la malattia, ma l’idea di dover subire ancora quella umiliazione a spingerlo ad uscire sul terrazzo e a gettarsi nel vuoto. Perché per molti non ci può essere vita senza dignità. Lo dice anche la nostra Costituzione, a proposito di accanimento terapeutico, all’articolo 32: “La legge non può in nessun caso violare i limiti imposti dal rispetto della persona umana”. Dovremo partire da qui per stabilire, nella legge che verrà, chi ha diritto alla eutanasia. E va detto fin dall’inizio del dibattito che legalizzare l’eutanasia solo per i malati terminali significherebbe negarla alla maggior parte delle persone che vorrebbero ottenerla perché ritengono la loro vita non più degna di essere vissuta. La difesa della dignità di ogni uomo dovrebbe dunque essere la stella polare di una legge sul fine vita, come di qualsiasi altra legge sui diritti civili.
Concludo con un appello: ai giornalisti, perché scrivano con continuità su questo tema e lo tengano vivo ed attuale; agli intellettuali, perché escano dalla loro turris eburnea e facciano sentire il peso della loro autorità morale; ai politici, perché trovino il coraggio di occuparsi di questo tema anche contro la linea dei loro partiti. Penso in particolare ma non solo, ai capigruppo di Camera e Senato, che potrebbero premere perché le leggi sull’eutanasia escano dai cassetti in cui giacciono da anni. Ne conosco diversi, alcuni credenti altri no, ma tutti mi sembrano persone capaci di umana pietà: perché questo è il sentimento che dovrebbe spingere tutti ad agire per porre fine, o almeno per frenare, quella che ho chiamato, penso a buon diritto, “la strage degli innocenti”.
Ps. Alla vigilia del voto (in prima lettura) dell’Assemblea Nazionale francese sulla legge che prevede una “sedazione profonda e continua” un sondaggio Bva-Orange-iTele rivela che il 96% dei francesi si dichiara favorevole a questo tipo di sedazione quando il paziente lo decida. La percentuale cala leggermente (all’88%) nel caso, anch’esso previsto dal disegno di legge, in cui la sedazione venga applicata su decisione dei medici quando il paziente non può esprimere la sua volontà.