Il poliziotto sta parlando del suo ultimo libro, “Il caso Aldrovandi 2005-2015”. Ma a destare il mio interesse è qualcosa che nel libro non c’è.
Nel corso della presentazione pubblica, avvenuta a Ferrara, l’autore, dando per scontate le colpe dei quattro colleghi (“gli errori ci sono stati, Federico è stato immobilizzato in maniera cruenta e non come da manuale”), critica il comportamento della questura estense all’indomani della morte di Federico: “Era sbagliato già il mattinale nel quale nemmeno si parlava dello scontro, un tentativo riduzionista per risolvere la situazione come se ne sono visti tanti nel corso dei decenni in Italia”. E aggiunge: “Anche a Ferrara ci sono state altre situazioni molto dubbie risolte in modo abbastanza ‘in carrozza’”.
Ora, un ispettore della questura di Ferrara, finita per anni nell’occhio del ciclone per ipotesi di depistaggio (un ufficiale condannato in Cassazione e uno assolto per prescrizione), afferma pubblicamente di essere a conoscenza, diretta o indiretta, di casi simili o assimilabili. Casi, a suo dire, “risolti” attraverso un metodo per decenni sperimentato con successo in tutta Italia (è sempre la parafrasi delle sue parole), quello dell’insabbiamento.
Sarò ancora più diretto: un funzionario importante della questura e sindacalista della Polizia di Stato ci sta dicendo che è al corrente del fatto che in passato ci sono stati altri casi Aldrovandi, con vittime non necessariamente finite all’obitorio. Casi rimasti sepolti.
Ne vogliamo parlare?