Più libertà di scelta. Ma a caro prezzo, per chi non farà attenzione. Il disegno di legge Concorrenza varato dal Consiglio dei ministri il 20 febbraio elimina la disparità di trattamento tra le diverse tipologie di previdenza complementare, cioè quella con cui il lavoratore può costruirsi una pensione aggiuntiva che si somma a quella erogata dall’Inps o dalle casse previdenziali di categoria e che viene alimentata destinandovi il Trattamento di fine rapporto. Fino a oggi era previsto che solo gli iscritti ai fondi pensione negoziali o chiusi, cioè quelli riservati ai lavoratori di uno specifico settore (per esempio il Fondo medici, il Fondo giornalisti, il fondo Cometa per i metalmeccanici, il Fonchim per i chimici), ricevessero anche un contributo aggiuntivo da parte del datore di lavoro: in media l’1% della retribuzione, che va appunto ad aggiungersi al Tfr “arrotondando” la posizione del titolare. Non aveva invece diritto a quell’apporto chi invece sceglieva un fondo aperto gestito da una compagnia di assicurazione o da una banca oppure un piano individuale pensionistico (pip), cioè una polizza assicurativa che dà diritto a una prestazione mensile erogata a partire dall’età del pensionamento. A stabilirlo era la riforma Maroni, quella che nel 2005 ha riordinato le forme pensionistiche complementari imponendo ai lavoratori di scegliere entro il giugno 2007 se lasciare il proprio trattamento di fine rapporto (Tfr) in azienda o “traslocarlo” in un fondo.
Il ddl Concorrenza estende a tutti il contributo del datore di lavoro – Il nuovo disegno di legge, ancora passibile di modifiche nel corso dell’iter parlamentare, stabilisce al contrario che d’ora in poi l’azienda dovrà garantire quello che in gergo si definisce “contributo datoriale” a tutti i lavoratori, compresi quelli che decidono di passare da un fondo chiuso a uno aperto. I sindacati sono contrari, perché sostengono che in questo modo gli aderenti ai fondi chiusi (risultato di una negoziazione tra rappresentanti dei lavoratori e associazioni di rappresentanza dei datori di lavoro) diventeranno terreno di caccia per assicurazioni e istituti di credito. Le cui reti di vendita, venuto meno il disincentivo costituito dalla perdita di quell’1%, potranno con più facilità conquistare clienti in una platea che conta 1,9 milioni di iscritti per un patrimonio complessivo di 39,6 miliardi di euro. Contro i 13,9 miliardi di risorse gestite dai fondi aperti e i 15,7 dei nuovi pip. Ma i gestori e la lobby delle assicurazioni, Ania, hanno buon gioco a sottolineare – dati alla mano – che anche senza quella facoltà nel 2014 i fondi negoziali hanno registrato un calo delle adesioni (6mila in meno) mentre quelli aperti hanno messo a segno un +7% e i pip addirittura un +15%, arrivando rispettivamente a 1,05 e 2,45 milioni di iscritti.
Tra 2000 e 2014 i fondi negoziali in media hanno reso di più – Marketing e resistenze ideologiche a parte, l’unico modo per valutare l’effettiva convenienza della liberalizzazione è paragonare rendimenti e costi dei diversi strumenti a disposizione di chi vuole crearsi la “pensione di scorta”. Stando all’ultimo rapporto dell’authority di vigilanza sul settore (Covip), nel 2013 i fondi chiusi hanno reso in media il 5,4% e i fondi aperti l’8,1%, mentre per quanto riguarda i Pip le gestioni separate hanno ottenuto un rendimento del 12,2% e le linee legate a fondi comuni (in gergo unit-linked) il 3,6 per cento. L’anno scorso invece i risultati si sono allineati: gli investimenti nei fondi pensione negoziali e nei fondi aperti hanno reso in media, rispettivamente, il 7,3% e il 7,5%, e i Pip unit linked il 7,3% (non è ancora disponibile il dato sulle gestioni separate). Tutti risultano più convenienti per il lavoratore del Tfr lasciato in azienda, che si è rivalutato solo dell’1,7% nel 2013 e dell’1,3% nel 2014. Un confronto dei rendimenti messi a segno a partire dal 2007 mostra che da allora i fondi negoziali hanno reso in media il 3,7%, quelli aperti il 3,4% e i pip unit linked il 2,75%, mentre per quelli collegati a gestioni separate il rendimento è stato del 3,6%. Si tratta però di anni fortemente segnati dalla crisi finanziaria. Visto che la previdenza complementare ha un orizzonte di lungo periodo, vale la pena di estendere il confronto. Allargandolo al periodo 2000-2014, si scopre che il rendimento cumulato dei fondi negoziali è stato del 59,5% contro il 30,7 dei fondi aperti. Ma i risultati ottenuti dalle sole linee obbligazionarie dei fondi aperti sono stati superiori: intorno al 60%.
Alla prova dei costi vincono i prodotti “chiusi”. Più cari i pip – Tutti i rendimenti sono al netto dei costi di gestione, elemento essenziale nella scelta di un prodotto: su un orizzonte di 35 anni, a parità di altre condizioni una differenza di costo dell’1% comporta che la pensione complementare sarà più bassa del 16%. Su questo fronte non c’è gara: l’Indicatore sintetico dei costi (Isc) rilevato dalla Covip evidenzia che i fondi negoziali sono in media più convenienti di quelli aperti. I costi incidono infatti in media lo 0,9% su un orizzonte di due anni, che si riduce allo 0,5% su 5 anni e scende allo 0,2% su 35 anni. Per contro, nei fondi pensione aperti l’Isc su 2 e 5 anni è rispettivamente del 2,1 e 1,4% e si attesta all’1,1% (con picchi più elevati per le linee azionarie) per chi mantiene aperta la posizione per 35 anni. Molto più alti i costi dei pip: 3,5% su 2 anni, 1,5% (con punte fino a 2,5) su 35. Secondo Angelo Marinelli, coordinatore del dipartimento Fisco e Previdenza della Cisl, ne deriva che “dopo 35 anni, supponendo che si siano versati 1.500 euro l’anno, chi ha aderito a un fondo chiuso si ritrova a disposizione 60mila euro in più rispetto a chi ha scelto un pip”.
L’incognita delle tasse – Va detto infine che tutti i rendimenti rilevati da Covip (tranne quelli dei pip, per i quali l’imposta sostitutiva è prelevata direttamente sulle posizioni degli iscritti) sono al netto della tassazione. E su questo fronte la legge di Stabilità ha disposto modifiche rilevanti, aumentando l’aliquota di imposta dall’11,5 al 20%. Intervento in parte compensato con un credito di imposta riservato ai fondi che investono in progetti infrastrutturali. È tutto da vedere se i gestori riusciranno a incrementare i rendimenti lordi in modo da minimizzare l’impatto della novità su quelli netti. In caso contrario, a pagare saranno i futuri pensionati.