Finalmente è stato presentato dal premier Matteo Renzi il disegno di legge su La Buona Scuola e a noi preme una riflessione su alcuni aspetti di un intervento tanto annunciato quanto necessario. Un’occhiata complessiva alla struttura della riforma ci porta a dividerla in 4 punti:
– Riorganizzazione della scuola azienda e interventi sul personale quali stabilizzazione dei docenti precari, bonus stipendi, aumento di indipendenza e potere dei dirigenti scolastici, introduzione di nuovi strumenti di valutazione del corpo docente;
– Lavoro attraverso la facilitazione di tirocini ed inserimento lavorativo, introducendo anche l’alternanza scuola-lavoro;
– Aiuti (indiretti) alle scuole non statali;
– Didattica, nuove materie e piano digitale.
Soprassedendo sui primi tre, che richiederebbero riflessioni di natura più squisitamente politica, è il quarto punto, in particolare, ad essere oggetto della nostra riflessione. A bene vedere, la voce “didattica” che abbiamo usato risulta essere alquanto generosa. Fermo restando una maggiore attenzione a inglese ed economia unito al risanamento di arte e musica (tagliate della Gelmini), rimane l’equivoco rispetto al cosiddetto “piano digitale”.
Rafforzamento della banda larga e del wi-fi, bocciatura delle lavagne multimediali e un maggiore investimento in formazione tecnologica ai docenti, proseguono in quell’equivoco metodologia/didattica/pedagogia che ha animato le politiche scolastiche degli ultimi anni, soprattutto in relazione ai linguaggi multimediali.
Facendo un passo indietro, infatti, salta fuori che la storia degli investimenti ministeriali volti a creare nel corpo docente le competenze multimediali parte nell’a.s. 2008-2009 col Piano Nazionale Scuola Digitale. E da subito si preferì investire più sull’infrastruttura (tipo la fornitura delle Lim ora invece bocciate) che sugli aspetti didattici (ad esempio rendendo i docenti consapevoli dello strumento nelle loro mani e capaci di trasmettere tale consapevolezza agli alunni). La parte formativa fu, infatti, molto più un “addestramento tecnico-pratico” svolto da “formatori” che erano dei semplici tecnici specializzati sul software. Negli anni successivi è anche venuto gradualmente meno il ruolo ministeriale di guida ed indirizzo dei percorsi multimediali nelle scuole e, di fatto, queste si sono organizzate da sole ed in modo diverso.
A dimostrazione di ciò, proprio in questi giorni (marzo 2015) stanno per partire i nuovi corsi di formazione sulla base del Piano Nazionale Scuola Digitale (Pnsd), ovvero dei piani ministeriali non caratterizzati da una totale uniformità ma fondati su una serie di iniziative regolate da scuole polo, sostanzialmente legate alle scelte dei dirigenti locali. Per completezza citiamo anche l’enfasi posta dal premier sull’introduzione del “coding” e l’artigianato digitale. I ben informati sanno, però, che tale misura era già stata annunciata all’inizio di quest’anno scolastico, col la partecipazione del Ministero ad ottobre 2014 alla “Settimana Europea del Coding”. Il punto sarebbe quello di insegnare ai ragazzi alcuni elementi per la programmazione, in modo da renderli in grado, alla fine del percorso scolastico, non di usare un computer ma di produrre piccoli programmi come videogiochi o brevi sequenze, sul modello di quanto avviene già in molte scuole straniere, soprattutto anglosassoni. La domanda da fare al Governo (o al ministro Giannini, tra l’altro pare fosse sorpresa in prima persona da alcuni annunci del Premier) è la seguente: esiste una coscienza pedagogica, prima che metodologica, dietro alle nuove esperienze di formazione di “didattica 2.0” che si vogliono proporre al corpo docente?
Rimaniamo in attesa dei futuri sviluppi, sperando che tale aspetto, ad oggi decisamente marginale, non si perda in un iter parlamentare che si prospetta lungo ed insidioso.