Per capire come mai la legge anti-corruzione proposta da Piero Grasso ci abbia messo 734 giorni prima di uscire, tra molti peggioramenti, dalla commissione Giustizia del Senato, conviene partire dai numeri. Non però da quelli contenuti nelle nuove norme. Le cifre che chiariscono bene il perché di buona parte dell’insopportabile ritardo sono altre. Sono quelle che fotografano lo stato dell’arte (criminale, verrebbe da dire) all’interno del Nuovo centrodestra.
A Palazzo Madama, 12 su 36 senatori del partito di Maurizio Lupi e Angelino Alfano risultano avere o aver avuto a che fare, come imputati o indagati, con i tribunali. E una situazione analoga si verifica a Montecitorio dove, forse in nome del bicameralismo perfetto, 11 su 33 deputati Ncd sono coinvolti, o lo sono stati, in procedimenti penali.
Si tratta di una percentuale record – il 33% – impossibile da trovare persino tra gli inquilini dei palazzi più malfamati delle periferie metropolitane, ma presente nelle riunioni parlamentari infragruppi di un partito che, va detto con franchezza, dimostra coi fatti di essere la vera bad company del defunto Pdl (in Forza Italia il tasso di presunta devianza è più basso).
Queste cifre hanno ovviamente delle importanti conseguenze. Da una parte è difficile ritenere che i rappresentanti Ncd, al di là dell’esito processuale delle varie vicende, possano guardare di buon occhio al controllo di legalità operato dalla magistratura. Dall’altra, la maggioranza, già condizionata da larghi settori del Pd inquinati da clientelismo e malaffare (si pensi ai casi di Mafia Capitale, Expo e Mose), deve fare pure i conti con decine di parlamentari, decisivi per la tenuta del governo, che rispetto alla giustizia si trovano in posizione di perenne conflitto di interessi. Gente che, in base all’esperienza personale, sa tutto di leggi e pandette e che, se colpevole, ha un unico obbiettivo: mettere i bastoni tra le ruote a procure e tribunali.
Anche per questo non è irragionevole presumere che al termine della discussione delle Camere le nuove norme su tangenti, falso in bilancio e prescrizione, peggioreranno ancora. Del resto non è necessario aver letto La legge di Murphy di Arthur Bloch per sapere che “un esperto è una persona che evitando tutti i piccoli errori punta dritto alla catastrofe”. Basta aver dato una scorsa alle cronache giudiziarie che riguardano gli uomini di Alfano.
Oltretutto, seguendo rigorosi principi di logica cartesiana, la maggioranza ha scelto come relatore dell’articolato sulle mazzette un altro esperto che, ovviamente, è un esponente dell’Ncd. Si chiama Nico D’Ascola. Anche lui alterna le puntate in Parlamento a quelle in tribunale. Ma a differenza di molti colleghi centristi non perché imputato. D’Ascola fa l’avvocato e spesso assiste presunti ‘ndranghetisti. In passato ha difeso l’uomo delle escort, Gianpi Tarantini e, prima che gli facessero notare l’ineleganza della cosa, pure l’ex ministro Claudio Scajola.
“Non vedo il conflitto di interessi” ha detto. Poi ha gettato la spugna e mollato Scajola. Forse ora è venuto il momento che D’Ascola molli pure la legge. Un relatore non part time, e soprattutto non costretto a partecipare ai summit di un partito che la satira ribattezza Nuovo Centro Detenuti, per gli italiani sarebbe un bel segnale di fiducia.
Il Fatto Quotidiano, 21 marzo 2015