Ora – ad esempio – comprendiamo meglio la retorica delle Grandi Opere, promossa da sedicenti modernizzatori con chilometrica coda di paglia: l’apertura di cantieri solo apparentemente reali, quando – in effetti – illusionistici, finalizzati a creare ennesimi motivi di spesa del pubblico denaro per lucrose scremature affaristiche. Una retorica ottocentesca che ci hanno continuato impunemente a propinare, coadiuvati da tambureggianti campagne medianiche per irridere (e non di rado criminalizzare) i contrari. Quegli ingenui che si premuravano di contestare le argomentazioni esplicite, osservando che se fino alla seconda metà del Novecento importanti realizzazioni infrasrutturali erano opportuna risposta alle esigenze di una società in lenta trasformazione; nella fase attuale la natura ondivaga quanto vorticosa dei mutamenti rischia di rendere immediatamente obsoleto qualunque progetto che non sia improntato a logiche adattive.
Per cui risultano molto più saggi interventi di manutenzione e aggiustaggio, piuttosto che investimenti faraonici in quelle che presumibilmente si rivelerebbero “cattedrali nel deserto”. Per dire – al netto delle questioni ambientali – la tanto strombazzata urgenza di “TAV in val di Susa” si fonda su scenari a proiezione lineare del trend logistico d’inizio XXI secolo; caratterizzato da una crescita di volumi containerizzati provenienti dal Far East, ora drasticamente ridotti dalla scelta della Repubblica cinese di orientare il proprio sistema produttivo dall’export al consumo interno. Sicché – attualmente – non si registra nessuna esigenza di aumentare le capacità trasportistiche sulla tratta Torino-Lione, mentre restano ben cogenti e – dunque – decisivi gli interessi a “fare la cresta” sul finanziamento previsto dell’opera.
Insomma, l’età post-industriale ha logiche diametralmente opposte a quella industriale, mentre perdurano gli inesauribili appetiti delle corporazioni che controllano i gate dove transita il denaro.
Ma l’affare Incalza-Lupi dice qualcosa di ancora più inquietante, in materia di potere e controllo sociale: la saldatura fattasi sistemica tra oligarchie (politiche), tecnostrutture (burocratiche) e plutocrazie (finanziarie).
Queste le componenti costitutive della struttura castale che si è ricostituita a partire dalla fine del Welfare State. A Roma come a Bruxelles. Quell’uno percento che ha preso in ostaggio il restante novantanove; e ora lavora in maniera indefessa per ridisegnare una società fondata sul privilegio, sull’esclusione a scapito dell’inclusione.
Solo così possono essere capite scelte stridenti quanto in apparenza diversissime: dall’innalzamento dell’età pensionabile allo sbaraccamento della scuola pubblica, dal fenomeno degli esodati alla repressione di qualsivoglia relazione di coppia che contraddica il paradigma gerarchico-patriarcale finalizzato alla riproduzione (magari con il supporto mediatico di qualche stilista alla moda del glamour tamarro!).
Questo è il vero segno (scandaloso) dei tempi, in cui gli Incalza e i Lupi appaiono soltanto pallide comparse: il ritorno alla grande della disuguaglianza; un fenomeno che parve in arretramento nel breve lasso di trent’anni nel secondo dopoguerra. Ora in crescita esponenziale. Tanto che l’economista Thomas Piketty si chiede: «il mondo finirà nelle mani dei trader, degli alti dirigenti e dei detentori di patrimoni rilevanti, o dei paesi produttori di petrolio, o della Banca della Cina, o addirittura dei paradisi fiscali?».