“Gianfranco Franciosi è un uomo qualunque che da meccanico navale di un certo talento si ritrova a fare da infiltrato per quattro anni dentro un cartello di narcotrafficanti spagnoli e colombiani che fanno affari con il clan di Lauro qui in Italia”. La storia di Gianfranco Franciosi, per tutti Gianni, raccontata a quattro mani con il giornalista Federico Ruffo nel libro ‘Gli orologi del diavolo‘ (edito da Rizzoli), sembra un film. “Si tratta del primo civile nella storia del nostro Paese impiegato come infiltrato”, spiega Ruffo. L’inchiesta, con l’aiuto di Gianni, va avanti, ma ben presto travolge non solo la sua vita, ma anche quella della sua famiglia: i narcos vivono a casa loro, parlano con i suoi figli, conoscono le loro abitudini. Così, dopo l’arresto di molti membri del cartello, Gianfranco entra nel programma di protezione di testimoni. Il suo calvario, però, non finisce: “Il programma in Italia non funziona proprio così bene – prosegue il giornalista – e Gianni lo scopre abbastanza presto”. E arriva la decisione di fuoriuscirne: “Meglio rischiare la vita che restare lì”. Gianfranco si sente abbandonato da uno Stato che avrebbe dovuto proteggere lui e i suoi cari, così “per la prima volta nella storia del programma di protezione testimoni, Gianni porterà in tribunale il ministero dell’Interno chiedendo i danni – annuncia Ruffo – C’è un solo precedente, che è quello di Lea Garofalo”. In Italia, oltre Franciosi, ci sono 88 testimoni di giustizia, “la metà dei quali sono usciti dal programma perché non sopportano questo tipo di vita – conclude Ruffo -. Forse è il momento che il ministero, lo Stato e tutti noi prendiamo coscienza di quale sia la loro situazione e ce ne facciamo carico” di Chiara Carbone
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