Cominciò a rilasciare pensose interviste sul futuro dell’Italia, e lanciò con un paio d’anni d’anticipo la candidatura di Massimo D’Alema a palazzo Chigi.
I requisiti, apparentemente, li aveva tutti: apparteneva a una generazione successiva (Agnelli era del ‘21, Tronchetti è del ‘48); godeva di un’immagine glamour consolidata da vacanze su barche da sogno e dal matrimonio con la popolarissima ex modella Afef Jnifen; aveva in curriculum il rilancio della Pirelli: nel ‘92 aveva ereditato la guida operativa dall’ex suocero Leopoldo Pirelli che aveva lasciato l’azienda in condizioni quasi disperate dopo il fallito assalto alla tedesca Continental.
L’apoteosi doveva essere la scalata a Telecom Italia, compiuta alla fine di luglio del 2001, che lo proiettava alla guida della più importante azienda privata italiana. Ma già all’origine c’era qualcosa di storto. Per sfilare il gruppo telefonico a Roberto Colaninno fu decisivo il via libera di Silvio Berlusconi, che aveva appena vinto le elezioni, e la prima mossa di Tronchetti fu di tagliare le gambe a La7, che dava fastidio a B.
Così quando nel 2006 la gestione Tronchetti fu travolta dallo scandalo sui cosiddetti dossieraggi del suo capo della sicurezza Giuliano Tavaroli, le sue irose lamentazioni sul complotto politico ordito ai suoi danni dal nuovo premier Romano Prodi (scontro sul piano Rovati) servirono solo a sottolineare che, eventualmente, tutta la vicenda fu segnata dall’inizio alla fine dalla sottomissione alla politica.
Così la parabola imprenditoriale di Tronchetti va in archivio come simbolo della definitiva decadenza degli industriali italiani. In fondo la Pirelli nell’avventura Telecom ha perso almeno 3 miliardi di euro, e come dimostrano le notizie di oggi non si è più ripresa dal colpo. È stato calcolato che, quando scalò Telecom, Tronchetti impegnava 155 milioni di capitale personale e gestiva 55,4 miliardi altrui. L’arte di comandare rischiando i soldi degli altri è stata in fondo la migliore arma del nostro capitalismo straccione, ma è servita solo ad arricchire lorsignori e a far diventare povero il Paese. Dopo l’industria dell’auto si sono giocati anche le gomme. Non è solo colpa di Matteo Renzi se alle nuove generazioni è rimasto solo Oscar Farinetti.
Il Fatto Quotidiano, 21 marzo 2015