Non era stata una gran vittoria, quella di Dilma Rousseff. Cifre alla mano, era anzi stata la più striminzita vittoria elettorale mai conseguita, in tempi di democrazia, da un presidente brasiliano. E tuttavia nessuno – neppure la più pessimista tra le molte cassandre che vanno da tempo annunciando, per il Brasile, giorni di vacche assai magre – avrebbe potuto, appena quattro mesi or sono, immaginare un tanto repentino e tanto catastrofico passaggio dalla luce del trionfo alle tenebre d’una crisi il cui fondo ancora non si riesce ad intravvedere.

Uno slogan ed un numero ci raccontano, con molto stringata efficacia, la misura di questa caduta. Lo slogan è quel ‘fora Dilma’, Dilma vattene, che domenica 15 marzo, in una delle manifestazioni più grandi della storia brasiliana, centinaia di migliaia di persone hanno gridato in tutte le città del paese. Ed il numero è il molto scaramantico 13. Tredici, come il tredici per cento che, stando all’ultimo sondaggio condotto da Datafolha, impietosamente espone l’attuale indice di popolarità della Rousseff. Mai nessuno – neppure Fernando Collor de Mello, il presidente che, nel 1992, venne poi effettivamente abbattuto dall’impeachment – era riuscito a scendere tanto in basso.

Che cosa è accaduto in questi quattro apocalittici mesi? Di che cosa è fatto il fulmineo e rovinoso tracollo di Dilma Rousseff? Di tre cose, fondamentalmente. O meglio, del congiungersi di tre eventi – congiunturale il primo, strutturali gli altri due – che insieme hanno definito il contorno d’una crisi che è, nel contempo, economica, morale e politica.  Economica perché il primo evento, quello congiunturale, è per l’appunto l’arrivo – dalle cassandre di cui sopra ampiamente preannunciato – delle ‘vacche magre’. O meglio: è la fine del molto prolungato periodo di ‘vacche grasse’, anzi, decisamente obese, che, tra il 2003 ed il 2011, ha marcato il cosiddetto ‘commodities supercycle’, la lunga stagione d’auge che, sospinta dai venti impetuosi della crescita cinese, ha beneficiato pressoché tutti i paesi produttori di materie prime. Una fine che, per quanto ampiamente annunciata, ha rivelato, oltre ogni previsione, la fragilità ed i limiti, l’incompiutezza d’una lunga – e per molti versi davvero storica – stagione di crescita (più 4,5 per cento in media all’anno) e di trasfigurazione sociale (negli anni della presidenza di Lula da Silva, prima, e di Dilma Rousseff, poi, almeno 30 milioni di persone sono uscite dalla povertà e dalla marginalità dell’economia informale, andando ad ingrossare le fila d’una nuova classe media).

E tuttavia in nessun modo i dati economici – gravi ma tutt’altro che disastrosi – potrebbero, in sé, spiegare l’assai brusco crollo dei consensi per Dilma e per il suo governo. A trasformarli in una sorta di preludio dell’apocalisse – o in quel molto malaugurante ed inedito 13 per cento di pubblico gradimento – sono intervenuti altri due concomitanti fattori. Ovvero: lo scandalo Petrobras, l’ente energetico nazionale (fatto, questo, del tutto nuovo e dirompente) ed il perdurare d’una crisi politica che in realtà, molto più che una crisi, è che la vera essenza d’una coalizione (quella che ha garantito la vittoria di Lula prima e Dilma poi) che, da sempre, vanta una guida di sinistra ed un’anima profondamente conservatrice. La prima affidata al Pt (Partido dos Trabalhadores). La seconda garantita dal Pmdb, Partido do Movimento Democrático Brasileiro, opaco ma assai fedele specchio dello status quo, pressoché invisibile, ma sempre implacabile, controllore delle istituzioni. O meglio: della loro immobilità.

Sebbene la corruzione sia, in Brasile un fenomeno strutturale, quello di Petrobras non è, in alcun modo, ‘uno scandalo come tanti’. Non lo è per le sue ovvie dimensioni economiche (le sue attività energetiche coprono oltre il 10 per cento del pil brasiliano) e per la sua gigantesca ramificazione politica (un sistema di tangenti che coinvolge altre grandi imprese, nonché oltre una cinquantina di altissimi papaveri, tra i quali il tesoriere del Pt ed i presidenti, entrambi del Pmdb, di Camera e Senato). Non lo è perché nelle sue profondità riflette la ‘normalità’ marcescente d’un sistema di potere dal quale Dilma Rousseff non può, in nessun modo, chiamarsi fuori. Non ci sono per il momento a carico della ‘presidenta’ imputazioni penali; né su di lei pesano – come nel caso di Cristina de Kirchner, in Argentina – i sospetti derivati da sfacciati fenomeni di arricchimento personale. Ma è un fatto che l’intero scandalo è maturato in territori da lei controllati. Tra il 2003 ed il 2009, negli anni in cui il sistema di tangenti nacque e si consolidò, proprio lei era presidente del Consiglio d’Amministrazione di Petrobras e ministro dell’Energia…

Ad appena quattro mesi dalla sua rielezione Dilma è la più zoppa delle anatre zoppe. Anzi, peggio: è un’anatra zoppa e solitaria, attaccata dai suoi storici nemici ed abbandonata da amici che non hanno gradito la politica di classica austerità con la quale – tradendo le promesse elettorali – ha affrontato la sfavorevole congiuntura economica. Solitaria e, nel contempo, paralizzata dalla stessa natura del sistema di alleanze che garantisce la sua presidenza. È, Dilma Rousseff, un generale senza esercito, un pilota alla guida d’un auto che, senza freni e con il volante bloccato, corre a tutta velocità verso un precipizio.

Riuscirà a svoltare? Di certo, per il momento, non c’è che questo. Non dovesse riuscirci – e con l’America Latina globalmente entrata nel cono d’ombra della fine del ‘commodities supercycle’ –  la sua caduta finirebbe per trascinare nel baratro ben più dei destini del paese che, da sempre in attesa del proprio futuro, ama definire se stesso ‘ o mais grande do mundo’…

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