‘Nel loro destino c’è stato, qui, tra noi, uno strappo. Sono purtroppo figli delle nostre omissioni, delle nostre ipocrisie, della nostra viltà. Ci tendono questo specchio dal fondo delle loro tragedie, e ci vediamo riflesso il nostro viso (…)Un viaggio nelle terre che stanno per cadere nelle mani del califfato è un’esperienza assolutamente unica, che non ha paragoni, forse solo in alcuni luoghi di tragedie africane, la stessa qualità specifica, estrema. È la struttura iniziale, pre-umana, ai limiti del planetario che offre questo mondo in cui non sembrano valere le regole del comportamento che hanno fatto della terra un pianeta decorosamente stabile. Ci sono le ferocie, le bizzarrie, i furori afasici di qualcosa che la terra non ha ancora definitivamente domato: un vulcano in continuo tremore dove si spalancano forami che provocano accessi a fiumi ribollenti di odio, e di santità assassina’.
Scritto prima dell’indignazione internazionale che ci ha fatto diventare per qualche giorno tutti Charlie, prima di Tunisi, prima del macello nelle moschee di Sana’a, prima della devastazione dei siti archeologici dell’Iraq, Il Grande Califfato, di Domenico Quirico (Neri Pozza Editore), è un libro importante che attraverso un lirismo mai fine a se stesso affronta la spinosa questione del radicalismo islamico.
Il giorno in cui, per la prima volta, parlarono a Domenico Quirico del califfato fu un pomeriggio, un pomeriggio di battaglia ad al-Quesser, in Siria. Domenico Quirico era prigioniero degli uomini di Jabhat al-Nusra, al-Qaida in terra siriana. Abu Omar, il capo del drappello jihadista, fu categorico: “Costruiremo, sia grazia a Dio Grande Misericordioso, il califfato di Siria… Ma il nostro compito è solo all’inizio… Alla fine il Grande Califfato rinascerà, da al-Andalus fino all’Asia.”
Tornato in Italia, Quirico rivelò ciò che anche altri comandanti delle formazioni islamiste gli avevano ribadito: il Grande Califfato non era affatto un velleitario sogno jihadista, ma un preciso progetto strategico cui attenersi e collegare i piani di battaglia. Non vi fu alcuna eco a queste rivelazioni. Molti polemizzarono sgarbatamente: erano sciocchezze di qualche emiro di paese, suvvia il califfato, roba di secoli fa. Nel giro di qualche mese tutto è cambiato, e il Grande Califfato è ora una realtà politica e militare con cui i governi e i popoli di tutto il mondo sono drammaticamente costretti a misurarsi.
Questo libro non è un trattato sull’Islam, poiché si tiene opportunamente lontano da dispute ed esegesi religiose. È soltanto un viaggio, un viaggio vero, con città, villaggi, strade e deserti, nei luoghi del Grande Califfato. Parte da Istanbul e si conclude in Nigeria, fa tappa a Groznyj in Cecenia e nelle pianure di Francia, nel Sahel e in Somalia. Parla di uomini, delle loro storie, delle loro azioni e omissioni. Mostra come al-Dawla, lo stato islamista, esista già, poiché milioni di uomini ogni giorno gli rendono obbedienza, applicano e subiscono le sue regole implacabili, pregano nelle moschee secondo riti rigidamente ortodossi, vivono e muoiono invocandone la benedizione o maledicendone la ferocia. Nondimeno, come Christopher Isherwood approdato nel 1930 a Berlino, con la sua potente narrazione, Domenico Quirico diventa, in queste pagine, “una macchina fotografica” con l’obiettivo così aperto sulla cruda realtà della nostra epoca, che ne svela il cuore di tenebra meglio di mille trattati e saggi.
Un libro bello, scomodo, che non risparmia critiche all’Europa e all’Occidente, e al mondo musulmano. Pagine di new journalism estremo, scritte osservando e sacrificandosi in prima linea, un po’ alla maniera di Aidan Hartley con il suo Il forziere di Zanzibar. Pagine che hanno la forza di concretizzare quella che era una previsione ignorata da molti:
‘Sì, l’avanzata dell’islamismo fa veramente paura il giorno in cui ti accorgi che ne respiri, tra ciucche parolaie, quasi inconsapevolmente e senza trasalire l’aria insulsa e sanguinosa. Tutto il mondo musulmano è chiuso e incatenato. Milioni di sudditi recalcitranti e impauriti che si dibattono già nell’interdetto islamista. Ogni giorno depenniamo lembi che non possiamo più percorrere (…) Il nostro mondo democratico e tollerante si restringe, si rannicchia, in attesa dello schiaffo e della iniziativa degli altri. Abbiamo accettato come un fatto compiuto il califfato di Mossul. Ora accettiamo l’emirato di Bengasi e poi quello di Tripoli e di Maiduguri e di Gao e chissà quali altri. Fidando della decrepita sottigliezza del nostro genio del compromesso e del distinguo. In Libia gli islamisti mettono mano su un bottino che vale mille volte più che le armi moderne razziate in Iraq. Non è il petrolio. Quello che interessa loro sono gli uomini, la loro obbedienza, le loro anime. In Libia ora diventano padroni di decine di migliaia di disperati, i fuggiaschi dell’Africa, i migranti, i “subsahariani” (…) Hanno manipolato le menti e i cuori di migliaia di ragazzi europei, trasformandoli in zelanti mujaheddin in cerca del martirio in Siria e altrove. Lo rifaranno, ancor più facilmente con i dannati dell’Africa. Le nostre carte? Erano mediocri e mal scelte. Come sempre.’